Ministro non mischi turismo con beni culturali

Lettera aperta al ministro Francescini di Vittorio Emiliani pubblicata il 18 luglio sul quotidiano “L’Unità”.

Immagine.Vittorio Emiliani

La sua idea di ridurre il potere delle ex Soprintendenze regionali divenute direzioni generali regionali va certo nella giusta direzione: semplificare la catena di comando e il rapporto centro-soprintendenze. 

Mi lasciano invece perplesso altre idee, soprattutto una: quella di una più stretta integrazione fra turismo e beni culturali e paesaggistici. 

Il primo sembra, da quanto si è letto, prevalere sui secondi assoggettandoli a logiche economico-promozionali. 

Ciò discende dalla convinzione – da lei ribadita nei giorni scorsi – che i nostri grandi musei siano “miniere d’oro” non sfruttate a dovere, cioè potenziali “macchine da soldi”.

Non dalle maggiori esperienze straniere: il Louvre infatti, coi suoi 180.000 mq di superfici espositive e coi suoi quasi 9 milioni di ingressi è passivo al 50% (ci pensa lo Stato) e analoga è la situazione del Metropolitan di New York. 

I grandi musei inglesi, come lei ben sa, sono gratuiti (tranne le mostre) e contano proprio così di attrarre più turisti. 

Il che è vero secondo le loro statistiche ufficiali: + 50% di turisti a Londra.

Ecco uno dei punti nodali: i beni culturali e paesaggistici sono, a mio avviso, la “materia prima”, il patrimonio da tutelare, da conservare, in sé e per sé, maggiore o minore che sia, mentre il turismo è un suo “indotto economico” che può ben essere potenziato se ben organizzato. 

E purtroppo in Italia esso è disorganizzato e più caro (del 10 %, sostiene Coldiretti) delle medie europee. 

Nonché spesso di qualità scadente.

Nel suo progetto (per quel che se ne sa) si prevede, in una visione che privilegia l’economia, il profitto, rispetto alla tutela complessiva del patrimonio, di separare i grandi musei dal territorio, dalle città, dal contesto storico in cui sono nati – da donazioni multiple di grandi famiglie, da chiusure di chiese e conventi, da collezioni o gallerie patrizie, nei modi più diversi – cioè dalle Soprintendenze. 

Popolate secondo la vulgata corrente o di studiosi troppo raffinati o di ottusi burocrati. 

Essi verrebbero affidati in completa autonomia a direttori anche stranieri, comunque non provenienti dai Beni Culturali. 

Un bello schiaffo alle nuove leve degli storici dell’arte italiani, dopo quello dell’accorpamento (deciso sulla carta) delle Soprintendenze ai Beni Artistici e storici a quella per i Beni architettonici. 

Con in più qualche pericolo “politico”. 

Chi nominerà quei venti mega-direttori e con quali criteri, il ministro? 

Prevarranno criteri “politici” o meritocratici? 

Essi potranno essere anche stranieri. 

Lei osserva che se vi sono italiani (per lo più, mi lasci dire, storici dell’arte) chiamati a dirigere musei vecchi e nuovi all’estero, vi potranno ben essere stranieri validi…

Per l’arte contemporanea è molto probabile. 

Per quella antica e per l’archeologia i dubbi non sono pochi. 

Nei maggiori teatri lirici nazionali non è che i Sovrintendenti stranieri abbiano dato prova strepitosa di sé. 

In ogni caso si è già visto con Mario Resca come inserire manager nel corpo di un Ministero “di patrimonio” abbia creato solo una gran confusione, per esempio per il “vitello d’oro” tutto o quasi privato delle società di servizi museali aggiuntivi. 

Ancora da sbrogliare, se non erro. 

Queste mega-direzioni esternalizzate sono un primo passo per privatizzare (vecchio progetto-Urbani) i maggiori musei? 

Retrospettivamente, anche ridurre in passato il MiBAC alla canna del gas aveva probabilmente questo fine ultimo. 

La polpa ai privati, l’osso allo Stato. 

E come la mette coi musei civici che spesso, nel Centro-Nord, sono i più grandi e prestigiosi di quelli statali? 

A Brescia o a Pavia, per esempio, è tutto civico.

Non voglio dilungarmi. 

Accenno al paesaggio italiano. 

Un giorno stavo assistendo alla telecronaca del Giro d’Italia e mi stupii nel vedere ripresi dall’elicottero paesaggi intatti, verdi, coltivi ordinati, nessuna periferia cenciosa. 

Corsi a vedere dove stessero correndo: purtroppo il Giro era sconfinato in Austria… 

Tutto questo avviene da noi per colpa delle Soprintendenze? 

Al contrario, per colpa di una sottocultura molto italiana – alla quale il berlusconismo ha dato un propellente formidabile – che intende il paesaggio come qualcosa di privato, in cui “ciascuno è padrone a casa sua”. 

 Lei ha costituito un precedente pericoloso con la creazione di una commissione per il ricorso contro i pareri emessi dalla Soprintendenze ai beni architettonici. 

Lei sa meglio di me che gli organici di quelle Soprintendenze sono ancor più carenti degli altri a fronte di una marea di richieste di concessioni edilizie, di autorizzazioni a costruire ovunque, a ristrutturare in fretta e furia. 

Per cui ogni architetto dovrebbe affrontare in ogni giorno lavorativo almeno 4-5 pratiche edilizie e urbanistiche ognuna delle quali richiede spesso anche una quarantina di giorni di istruttoria.  

Come si rimedia? 

Col potenziamento degli organici, ovvio. 

No, col richiedere, di fatto, un silenzio/assenso, sapendo che silenzio sarà, vista la incredibile mole di lavoro e la non meno incredibile pochezza di mezzi e di uomini. 

Le Soprintendenze vengono accusate di essere “organi monocratici”. 

È difficile pensare che non lo sia un organo tecnico-scientifico: non si decide a maggioranza come fare un restauro o, in campo medico, un’operazione a cuore aperto. 

Prima dello sciagurato Titolo V (la cui effettiva riforma sembra allontanarsi) esisteva un ufficio centrale ben dotato che, per esempio nel 1998, compì oltre 135.000 istruttorie progettuali annullando 3.092 progetti, neanche tanti, però maxi-progetti, “mostri”, in tempi rapidi, mediamente 42 giorni. 

Ma quell’utilissimo Ufficio centrale era stato dotato di mezzi e di personale tecnico adeguato. 

Noi ci auguravamo che accadesse per la co-pianificazione Regioni-Ministero prevista dal Codice per il Paesaggio. 

Dov’è finita invece, Toscana a parte?

In conclusione mi sembra, signor ministro, che mescolare la materia prima “patrimonio” e l’indotto “turismo” anteponendo per giunta il primo al secondo, oltre a smontare, di fatto, una tradizione, centenaria ormai di buona tutela (nonostante gli italiani), rischi di non giovare per primo al turismo che avrebbe bisogno, quello sì, di manager, di specialisti, di promoter e di obiettivi adeguati ai 48.738.575 stranieri che sono arrivati da noi nel 2012. 

Oggi la politica turistica la fanno i tour operator, come più conviene loro.

E sul paesaggio comandano speculatori, abusivi, padroni e padroncini.
 

 

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