Nel programma di “ Leggere la Città 2015” , che si è tenuta a Pistoia dal 9 al 12 aprile 2015, ci sono state 20 giornate di studio promosse insieme all’Ordine degli Architetti, che varranno crediti formativi ai professionisti iscritti che vi parteciperanno. | |
Non soltanto una rassegna culturale, ma anche un’occasione specifica di formazione professionale: quest’anno alcuni degli appuntamenti di “Leggere la Città” varranno crediti formativi per i professionisti iscritti all’Ordine degli Architetti, Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori che vi parteciperanno. Una novità assoluta, che rappresenta una delle caratteristiche qualificanti dell’edizione 2015 della rassegna. |
Ad aprire la rassegna in Sala Maggiore è stata la Lectio Magistralis di Edoardo Salzano “Spazi pubblici, cerniera tra città e società. Ieri, oggi, domani“, che il 9 aprile 2015 è stata pubblicata su “Eddyburg”.
Edoardo Salzano
Premessa
Da molto tempo mi occupo di spazi pubblici.
Erano nel mio lavoro nel 1962, agli albori dell’introduzione degli standard urbanistici nel sistema normativo italiano; erano nella mia esperienza politica, nei giorni che prepararono lo sciopero generale del 19 novembre 1969; erano nella mia ricerca sul complesso rapporto tra citta e società che si concretò nel libro Urbanistica e società opulenta.
Da allora, non ho mai smesso di lavorare sul tema che è al centro di queste giornate, né ho mai dubitato sulla sua rilevanza per chiunque voglia leggere la città per trasformarla.
Il limite
Negli anni più recenti la mia visione ha però cominciato a modificarsi.
Mi sono reso conto che tutti i ragionamenti, le analisi, le scelte che abbiamo compiuto da allora, tutto ciò, visto con lo sguardo dell’oggi aveva un limite: quello di assumere come riferimento gli spazi pubblici, la città, la società di una determinata parte del mondo: l’Europa.
È nella civiltà europea, nella sua cultura e nella sua storia, è nelle sue istituzioni nei suoi conflitti e nei suoi equilibri che abbiamo fino a oggi trovato le ragioni della nostra appassionata ricerca sulla citta e sui suoi spazi pubblici.
Sono convinto che la nostra consapevolezza di essere (noi, la nostra cultura, la nostra identità) solo una parte del pianeta Terra deve spingerci oggi a compiere uno sforzo di umiltà.
Guai se avessimo la presunzione di imporre agli altri, appartenenti ad altri luoghi, storie, culture, civiltà i nostri modelli.
È purtroppo quello che fanno le istituzioni internazionali (dalla Banca mondiale alle Nazioni unite) e lo stuolo dei ben pasciuti esperti che ne godono i benefici.
Credo che la formazione critica che la cultura europea ha dato a ciascuno di noi ci risparmi di partecipare alle nuove forme che ha assunto il colonialismo: quelle di imporre il proprio dominio (e proseguire lo sfruttamento) impiegando gli strumenti dell’esportazione forzosa dei propri valori e dei propri modelli di vita.
C’è qualcosa che vale?
Non voglio dire con questo che si debba oggi gettare alle ortiche quello che abbiamo imparato, né tradirne il significato.
Ho parlato di un limite, non di un errore.
Ma lo sforzo che la storia ci richiede non è solo quello di difendere ciò che avevamo conquistato e ci stanno togliendo.
È anche un altro, più ampio e più ricco.
È anche quello di comprendere fino in fondo se c’è, nel nostro bagaglio di conoscenze ed esperienze sugli spazi pubblici e sulla città qualcosa che abbia un valore generale, nel senso che si possa proporlo, come stimolo a un ragionamento più vasto, a tutte le culture e i popoli del mondo.
Prima di esprimere qualche idea a proposito di questo tema vorrei ripercorre sinteticamente un percorso attraverso il nostro passato.
Vorrei ricordare innanzitutto, molto sinteticamente, perché nella nostra storia il tema degli spazi pubblici sia stato decisivo, che cosa e attraverso quali conflitti le generazioni che ci hanno preceduto hanno raggiunto dei risultati.
Vorrei domandarmi poi che cosa abbiamo perso e stiamo perdendo oggi, e perché.
Tenterò infine di abbozzare qualche risposta alla domanda: in che direzione si debba muoversi per andare avanti.
- LA NOSTRA STORIA
La città nasce con gli spazi pubblici
Si può dire che la città nasce con gli spazi pubblici.
L’uomo, nel suo sforzo di costruire il proprio luogo nell’ambiente, genera quella sua meravigliosa invenzione che è la città in un certo momento della sua vicenda: precisamente quando, dal modificarsi del rapporto tra uomo, lavoro e natura, nasce l’esigenza di organizzarsi attorno a determinate funzioni e determinati luoghi che possano servire l’insieme della società.
È questa la ragione essenziale per cui nella città della tradizione europea sono sempre stati importanti gli spazi pubblici: i luoghi nei quali stare insieme, commerciare, celebrare insieme i riti religiosi, svolgere attività comuni e utilizzare servizi comuni.
I luoghi del consumo comune
La piazza – lo spazio pubblico per eccellenza – non era solo un luogo aperto.
Era lo spazio sul quale affacciavano gli edifici principali, gli edifici destinati allo svolgimento delle funzioni comuni: il mercato e il tribunale, la chiesa e il palazzo del governo cittadino.
Il loro ruolo sarebbe stato sterile se non fossero state parte integrante del sistema dei luoghi ordinati al consumo comune dello scambio e del giudizio, della celebrazione dei valori comuni e del governo della polis.
Le piazze erano i fuochi dell’ordinamento della città.
Con le strade che le connettevano costituivano l’ossatura della città. Le abitazioni, le botteghe, i capannoni ne costituivano il tessuto. Una città senza le sue piazze era inconcepibile come un corpo umano senza scheletro.
Non sono comuni solo gli spazi pubblici.
Se guardiamo con una certa attenzione la rappresentazione di una città del medioevo europeo troviamo la puntuale testimonianza di questo ruolo ordinatore del sistema degli spazi pubblici.
Ma troviamo anche un più ampio significato del concetto di spazio pubblico.
Vediamo che non è pubblico solo il sistema degli spazi, aperti e costruiti, d’uso collettivo, ma è pubblico, comune, anche qualcos’altro.
Qualcosa che determina il modo in cui i luoghi peculiari al privato (la casa, il capannone, la bottega) vengono ordinati.
Sono pubbliche, insomma, anche le regole che guidano l’intervento delle famiglie, degli abitanti, delle imprese.
Regole scritte, a volte disegnate, e regole determinate dalla cultura costruttiva.
Regole prescritte dalla politica fondiaria della città, che spesso era padrona del terreno sul quale la città sorgeva, e ne dava in uso i lotti alle famiglie definendo norme e criteri per l’utilizzazione delle aree private.
Possiamo dire che inizia allora un percorso dal concetto di “spazio pubblico” al concetto di “città pubblica”: non sono più comuni, collettivi, pubblici solo una serie di spazi ritagliati dall’insieme del contesto urbano, ma è la città in quanto tale che riconosciamo come struttura comune, collettiva, pubblica.
Il ruolo della rivoluzione capitalistico-borghese
I trionfo del sistema capitalistico-borghese ha modificato profondamente l’assetto della società e del territorio.
Per la città ha avuto un duplice ruolo rilevante.
Da un lato, il prevalere dell’individualismo ha condotto sia alla frammentazione e privatizzazione della proprietà del suolo urbano, minando così la base della capacità regolativa della polis, sia all’affievolirsi dei valori sociali impliciti nel concetto di cittadinanza.
Dall’altro lato le caratteristiche proprie della produzione capitalistica hanno provocato effetti di segno opposto.
L’inclusione nella città di tutti i portatori di forza lavoro, i servi sfuggiti alla miseria delle campagne e accorsi al luogo “la cui aria li renderà liberi”, ha consolidato la città e il suo potere rispetto ai luoghi del potere feudale, e ha posto le premesse materiali all’allargamento della democrazia.
Contemporaneamente il particolare conflitto di classe che quel sistema ha prodotto ha condotto al formarsi di una nuova solidarietà nel campo del lavoro.
Si è indebolita la solidarietà cittadina ma è nata la solidarietà di fabbrica e da questa è germogliata via via una nuova domanda di spazio pubblico nella politica e nella città.
Dal movimento culturale, sociale e politico scaturito dalla solidarietà di fabbrica è nata la spinta a ottenere il soddisfacimento di bisogni antichi negati dal prevalere del nuovo sistema e, soprattutto, di nuovi bisogni nati dall’affermarsi della democrazia: attraverso le loro azioni e le loro rappresentanze entrano nel campo dei decisori le grandi masse fino allora escluse.
La città del Welfare in Europa…
L’incontro tra la pressione del mondo del lavoro e il pensiero critico degli intellettuali ha inciso in modo consistente sull’allargamento dello spazio pubblico, nella città e nella società.
Nel corso del “secolo breve” vediamo infatti l’affermarsi di alcune componenti di quel carattere pubblico della città che prenderà il nome di “diritto alla città” e, nei nostri anni e con un significato analogo, “città come bene comune”.
Comincia, si afferma e poi si estende, in modo più o meno ampi, la “città del welfare”.
La vediamo nell’affermarsi del diritto socialmente garantito all’uso di un alloggio adeguato alle necessità, e alla capacità di spesa, delle famiglie degli addetti alla produzione.
Come lo vediamo nella nascita, e poi nel consolidamento, di servizi che soddisfano collettivamente alcuni dei bisogni che nel passato erano svolti nell’ambito familiare: dall’apprendimento alla cura della prole, dalla salute alla cultura.
Le scuole, gli asili nido, le biblioteche, gli ospedali, i parchi e le palestre cominciano a diventare presenze la cui quantità e qualità misura il grado di civiltà dei diversi stati.
… e in Italia
In Italia possiamo dire che gli elementi della città del welfare si affacciano all’inizio del XX secolo con le iniziative mutualistiche e municipali per affrontare socialmente il problema della casa e di alcuni servizi essenziali per determinate più bisognose categorie di cittadini.
Ma è solo negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso che si sviluppano iniziative che conducono, ad avvicinarsi al raggiungimento di tre grandi obiettivi della “città pubblica”:
- la presenza diffusa e generalizzata di spazi destinati alle attività collettive;
- il controllo pubblico di tutte le componenti dello stock abitativo (dall’edilizia pubblica a quella privata);
- la generalizzazione della definizione e del controllo di regole comuni alle trasformazioni del territorio, in particolare quelle derivate dall’urbanizzazione.
Questi obiettivi sono stati raggiunti in modo incompleto. In particolare, non è stato raggiunto quello che avrebbe dovuto costituire la base strutturale degli altri obiettivi: il controllo della rendita immobiliare.
Ricordiamo che cos’è la rendita.
Essa è la quota di reddito che non corrisponde né allo svolgimento di un lavoro né all’esercizio di un’attività imprenditiva.
Esso remunera unicamente la proprietà.
In particolare, la rendita immobiliare urbana si forma e cresce per effetto delle decisioni e gli interventi della collettività, storica e attuale.
È la città, la sua espansione, la sua attrezzatura che determinano l’incremento del valore della rendita ma in Italia di esso si appropriano i proprietari.
Controllare la rendita immobiliare, il suo accrescimento e la sua destinazione, è la condizione perché la collettività possa raggiungere nel concreto i propri obiettivi.
Per concludere su questa parte vorrei sottolineare un insegnamento positivo di quegli anni della nostra storia che molti ricordano come “gli anni di piombo”, e io invece definisco il ventennio della speranza.
Voglio ricordare il forte impegno dei detentori del sapere nell’azione sociale che c’è stato in quegli anni.
È questo che ha dato alle masse le parole d’ordine e le soluzioni praticabili per cui lottare con successo. Due sono le condizioni che l’hanno consentito:
- la capacità degli intellettuali di ascoltare le esigenze inespresse che nascevano dalla società, e cercare e trovare gli argomenti, i fondamenti teorici, le possibilità tecniche e le parole giuste per far comprendere i cambiamenti possibili;
- la capacità della società di costruire e adoperare gli strumenti economici (il sindacato) e politici (i partiti) capaci far prevalere, nella logica della dialettica democratica, le soluzioni giuste.
- LA SVOLTA
Crisi del carattere pubblico della città
Oggi la situazione della città e l’orientamento delle politiche urbane sono radicalmente diversi rispetto a ciò che possiamo leggere nella nostra storia. Negli ultimi decenni del secolo scorso è avvenuta una vera e propria svolta radicale.
Il carattere pubblico della città è profondamente in crisi, è negato in tutti i suoi elementi. A cominciare dal suo fondamento: la possibilità della collettività di decidere gli usi del suolo, sia attraverso lo strumento patrimoniale (proprietà pubblica dei suoli urbanizzabili o appartenenza pubblica del diritto a costruire), sia attraverso una pianificazione urbanistica efficace, autorevole, condivisa, gestita da chi esercita il governo in nome degli interessi generali.
In Italia gli standard urbanistici, strumento di base per ottenere una quantità ragionevole di aree da dedicare agli spazi pubblici, sono in decadenza: se ne propone l‘abolizione, e si pratica la privatizzazione delle strutture fisiche e funzionale che devono garantirne il libero accesso.
Alle piazze reali, si sostituiscono via via le grandi cattedrali del commercio, caratterizzate dalla chiusura ai “diversi” (in nome della sicurezza), e dall’obbligo implicito di ridurre l’interesse del frequentatore all’acquisto di merci (per di più sempre più superflue).
L’abitazione non è più un diritto che deve essere assicurato a tutti, indipendentemente dal reddito o dalla condizione sociale.
Ognuno è solo al cospetto del mercato, e di un mercato caratterizzato dall’incidenza crescente della rendita.
Così accade non solo per la casa, ma sostanzialmente, per tutti i “servizi alla persona” che completano l’abitazione ecostituivano il nucleo del welfare: dalla formazione alla salute, dalla mobilità alla cultura.
La globalizzazione
Il mondo e le città sono oggi dominati dalla globalizzazione.
Questa non è in sé un fatto negativo.
Negativo è il modo in cui il neoliberismo, se ne è impadronito e la gestisce.
Al sistema capitalistico-borghese e alla sua evoluzione novecentesca si è sostituita un’altra forma assetto economico sociale: quello che Giorgio Ruffolo ha definito “turbocapitalismo” e Luciano Gallino “finanzcapitalismo”.
Parallelamente e contemporaneamente è mutato rapporto tra uomo e società.
I sociologi e gli antropologi hanno coniato molte definizioni per esprimere sinteticamente e criticamente la società e l’uomo di oggi: una situazione che è il punto d’arrivo d’un progresso lungo, cominciato molto tempo fa, ma che ha ricevuto una fortissima accelerazione negli ultimi decenni. L’aspetto centrale, per quanto concerne il nostro tema, mi sembra quello che Richard Sennett chiama “il declino dell’uomo pubblico”.
In sostanza, la rottura dell’equilibrio che deve legare tra loro i due essenziali aspetti d’ogni persona: l’ pubblica, collettiva, comune e la dimensione privata, individuale, intima.
Contemporaneamente, l’uomo è stato ridotto alla sua dimensione economica.
Una dimensione economica anch’essa radicalmente mutata, sia sul versante dell’attività produttiva dell’uomo, il lavoro, sia su quello dei bisogni e dei consumi.
Infine, la politica è diventata a sua volta serva dell’economia, si è appiattita sul breve periodo, è divenuta priva della capacità di costruire un convincente progetto di società: priva della capacità di analizzare e di proporre.
Il mondo e la città
Le politiche territoriali e urbane del neoliberalismo accentuano tutti i fenomeni di segregazione, discriminazione, diseguaglianza che già esistono tra i continenti, all’interno di ciascuno di essi, negli stati e nelle città nelle città.
Nel nostro continente lo smantellamento delle conquiste del welfare urbano ne è una componente aggressiva; soprattutto nel nostro paese dove – a differenza che altrove – non c’è mai stata un’amministrazione pubblica autorevole, qualificata, competente, e dove salario e profitto sono stati sistematicamente taglieggiati dalle rendite.
Un’altra componente del neoliberismo è la tendenziale privatizzazione d’ogni bene comune che possa dar luogo a guadagni privati: dall’acqua agli spazi pubblici, dall’università alla casa per i meno abbienti, dall’assistenza sanitaria ai trasporti.
La città diventa una merce: nel suo insieme e nelle sue parti.
Una ulteriore componente è la progressiva riduzione degli spazi di vita collettiva e di partecipazione sociale; ciò soprattutto, a partire da due momenti:
- in Italia, quando l’obiettivo della “governabilità” è diventato dominante rispetto a quello della “democrazia”, e si sono impoveriti alcuni decisivi momenti della partecipazione e del pluralismo nell’ambito di tutte le istituzioni, dallo stato ai comuni;
- nel mondo, quando il crollo delle Twin Towers ha fornito la giustificazione, o l’alibi, alla priorità assoluta della “sicurezza” su qualunque altro bisogno, esigenza, necessità sociale.
Nei confronti degli spazi pubblici si produce quindi una devastazione che ne colpisce l’uno e l’altro versante: la loro consistenza fisica e la loro consistenza sociale.
Si riducono sempre di più gli spazi pubblici nei quali vivere insieme, come si riducono gli spazi, reali e virtuali, per la discussione, la partecipazione, la critica o la condivisione della politica.
Questo è ciò che accade sotto i nostri occhi, in Italia e in Europa.
Non lascia grandi speranze ciò che sta accadendo fuori dai nostri recinti.
Nel resto del mondo la penetrazione dell’ideologia e delle pratiche del neoliberalismo è divenuta quasi invincibile.
Del resto, già nel 2005 David Harvey, nell’indicare i quattro “cavalieri dell’apocalisse” protagonisti della sua “breve storia del neoliberismo” accanto a Ronald Reagan, Margaret Tatcher, i due leader dei paesi guida del neoliberismo, e ad Augusto Pinochet loro precursore, schierò Deng Tsiao Ping, presidente della Cina popolare.
Oggi, la politica delle grandi agenzie internazionali che controllano la politica mondiale e ne finanziano le operazioni (dall’ONU alla Banca mondiale all’Unione europea) ha aggiornato le forme del colonialismo adottando le tecniche raffinate dell’imposizione di modelli di vita e di pensiero utili al neoimperialismo.
Quelli cioè del neoliberalismo.
Due conseguenze potenzialmente catastrofiche
Le conseguenze del nuovo assetto dell’economia e della società sull’organizzazione dell’habitat dell’uomo sono preoccupanti e gravi per due aspetti più generali: la crescita delle diseguaglianze sociali; la progressiva dissipazione dei patrimoni naturali e culturali delle quali l’umanità dispone. Voglio accennare a questi due aspetti per ricordare a tutti noi che gli effetti dall’allargamento della forbice tra poveri e ricchi e la dissipazione delle risorse essenziali della vita e della civiltà sul pianeta Terra pongono problemi e richiedono impegni giganteschi e urgenti a chiunque abbia a cuore il future della nostra specie.
Ho detto poco fa che la politica e la società si sono appiattite sull’economia.
Ma il dato più preoccupante è costituito dal fatto che questa economia, l’economia sulla quale tutte le altre dimensioni dell’uomo e della società si sono asservite è un’economia il cui fine non è il maggior benessere degli abitanti del pianeta, ma è il massimo arricchimento (in termini di risorse e in termini di potere) del gruppo di persone che possiede e governa gli strumenti della produzione di beni, informazioni, armi. Basta una cifra per testimoniarlo: lo 0,7% della popolazione possiede il 41% della ricchezza globale.
Nel vigente sistema economico-sociale l‘aumento della ricchezza e del potere dei padroni del mondo avviene attraverso un complesso e perverso meccanismo di sfruttamento di tutte i beni disponibili (dal lavoro dell’uomo ai prodotti del mondo minerale, vegetale animale ai patrimoni culturali, artistici e cognitivi).
Un meccanismo tale da trasformare tutti i beni appropriabili in merci dotate di un più elevato valore di scambio.
La miopia, la preoccupazione esclusiva su ciò che accade oggi sembra prevalere sulla saggezza e sulla lungimiranza.
Altrimenti, i pochi che detengono il potere di decidere sulle sorti del mondo si renderebbero conto che il meccanismo della globalizzazione neoliberista non può non provocare – come sta provocando – due eventi distruttivi:
- l’esplosione della rabbia degli esclusi, dei poveri, della massa sterminata dei senza speranza: ciò che sta accadendo a sud della sponda meridionale del Mare nostrum dovrebbe farci comprendere qualcosa;
- l’esaurimento delle risorse vitali del pianeta Terra, e quindi la sua catastrofe.
3. PER DOMANI
Un riepilogo, in due precisazioni
Ho riassunto la vicenda dell’affermazione storica degli spazi pubblici come elemento nodale della città e cerniera tra città e società.
Mi sono soffermato sul modo in cui l’ideologia e la prassi dominanti nella fase della globalizzazione capitalistica minacciano di dissolvere le conquiste di una storia plurisecolare.
Vorrei cercare adesso di indicare alcune possibili tracce per uscire dalla crisi.
Ma prima di concludere vorrei precisare che significato, sulla base dell’esperienza europea, si debba dare alla parola “città” e vorrei poi, riassumere il senso che attribuisco all’espressione “spazio pubblico”.
La città
Per me quello che chiamiamo città (la forma europea dell’habitat dell’uomo, come lo definisce Piero Bevilacqua), è felicemente espresso dalla triade delle versioni greco-latine della parola citta: urbs, civitas, polis: la città come realtà fisica (un insieme di spazi costruiti e spazi liberi), la città come società (insieme di persone organizzate), la città come governo (un insieme di regole e di strumenti per decidere).
Alla definizione espressa da questa triade vorrei aggiungere una connotazione.
Vorrei precisare che da almeno un secolo l’habitat dell’uomo non è più composto da due parti separate: quella costruita, concentrata in una piccola porzione di spazio, e un’altra parte estremamente vasta, il territorio disabitato, o scarsamente abitato.
Oggi quando parliamo di città dobbiamo pensare all’insieme dello spazio del pianeta che è utilizzato per realizzare la “condizione urbana”: della persona di oggi.
Sono convinto che le cause della crisi attuale della città (e della civiltà urbana) stanno proprio nella decadenza progressiva e concatenata di quei tre termini (città, società, politica): una decadenza che comincia, come abbiamo visto, con la riduzione della società a mera aggregazione di individui, prosegue con l’erosione e il decadimento dello spazio pubblico, e non può concludersi – se non la contrastiamo – che con la morte della città quale l’abbiamo conosciuta.
Lo spazio pubblico
Per quanto riguarda il concetto di spazio pubblico avete compreso che attribuisco a questa espressione un significato molto ampio.
È spazio pubblico la piazza, sono spazio pubblico gli standard urbanistici, cioè le porzioni di città che il sistema normativo destina alla formazione di spazi pubblici.
Ma, è spazio pubblico una politica sociale per la casa. è spazio pubblico l’erogazione di servizi e attività aperti a tutti gli abitanti: dalla scuola alla salute, dalla ricreazione alla cultura, dall’apprendimento al lavoro.
È spazio pubblico la possibilità di ogni cittadino di partecipare alla vita della città e delle sue istituzioni, è spazio pubblico la democrazia e il modo di praticarla, al di là delle strettoie dell’attuale configurazione della democrazia rappresentativa.
Ed è spazio pubblico la capacità della collettività di governare le trasformazioni urbane mediante i due strumenti essenziali: una politica del patrimonio immobiliare che restituisca alla collettività gli aumenti di valore che derivano dalle sue decisioni e dalle sue opere, e una politica di pianificazione del territorio, in tutte le sue componenti e a tutti i suoi livelli.
- PER CONCLUDERE
Per concludere devo esporre due tentativi di risposta a due domande: che fare per la rinascita della città europea? E che fare per superare i limiti di una visione chiusamente europea?
Che fare per la rinascita della citta europea?
Nella vicenda della civiltà europea la conquista dello spazio pubblico è stata il risultato di un processo storico caratterizzato da faticose conquiste e sofferte sconfitte. Lo sarà anche in futuro. Non esistono strade in discesa.
Per costruire un futuro accettabile è necessario collocarci nella storia: avere consapevolezza di ciò che è alle nostre spalle, comprendere la condizione che viviamo oggi e scoprire in essa i germi di un futuro possibile.
Credo di aver sufficientemente argomentato come e perché gli spazi pubblici siano oggi a rischio. Ho accennato ai rischi principali.
Ho individuato la loro matrice ideologica nel declino dell’uomo pubblico che molti pensatori denunciano da tempo.
E ho indicato la loro matrice strutturale nel dominio del diritto alla proprietà privata e individuale sopra ogni altro diritto.
Dominio che costituisce il fondamento dei sistemi giuridici vigenti, in Italia e altrove, e che in questi devastanti anni italiani si tende ad accentuare oltre ogni limite, decretando che il diritto a edificare è connaturato alla proprietà fondiaria ed edilizia.
A questi rischi bisogna opporsi.
Per farlo occorrono due cose.
- la consapevolezza piena della condizione in cui viviamo e, insieme, quella della nostra possibilità di concorrere alla sua modificazione. La storia non è ancora scritta: siamo noi che la scriviamo. Se non abbiamo questa consapevolezza, della storia siamo vittime passive e imbelli.
- la paziente ricerca degli appigli cui aggrapparsi, delle forze su cui far leva, degli interessi da mobilitare, per avviare e proseguire una linea alternativa. Per dirla con Italo Calvino, per resistere all’inferno, dobbiamo “cercare e saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”.
Per mezzo secolo ho lavorato attorno a questi temi come urbanista, spesso prestato alla politica.
Chi ha avuto le esperienze che ho avuto io rivolge il suo sguardo in primo luogo alla politica.
È alla politica che spetterebbe configurare e proporre un “progetto di società”, e in relazione a questo un progetto di città e di territorio. Sono esistiti tempi in cui è stato così.
Io li ho vissuti.
Oggi non è più così.
Oggi non credo che si possa fare affidamento alla politica dei partiti.
Credo che nessuno dei partiti esistenti abbia le carte in regola.
Lo testimonia oltre tutto il numero crescente delle astensioni nelle elezioni politiche.
Oggi siamo orfani della politica.
Io credo allora che, pur senza rassegnarci a questa precaria condizione, dobbiamo lavorare su due referenti, nei confronti di due recapiti.
In primo luogo, i movimenti che affiorano dalla società, e che aspirano a un superamento delle condizioni date.
Sono fragili, discontinui, spesso abbarbicati al “locale” da cui sono nati.
Eppure, testimoniano una volontà di impegnarsi in prima persona per cambiare le cose.
L’altro interlocutore cui dobbiamo guardare sono le istituzioni elettive.
Con maggiore attenzione per i comuni, perché più sensibile al “locale”, ma non dimenticando mai che occorre avere una visione multiscalare: dal locale al globale, attraverso tutte le scale intermedia.
Una visione corrispondente alle molteplici “patrie” di cui ciascuno di noi è cittadino: dal paese e dal quartiere, dalla città alla regione e alla nazione, all’Europa e al mondo.
Sono convinto che in questo lavoro un compito grande spetti agli intellettuali, soprattutto a quelli che hanno nella città (come urbs, come civitas e come polis) il loro specifico campo d’azione.
Siamo, depositari d’un sapere che dobbiamo amministrare al servizio della società.
Dobbiamo saper ascoltare la società, individuare le esigenze che sollecitano alla costruzione di una città bella perché buona, perché equa, perché aperta.
E a quelle esigenze dobbiamo saper dare risposte: come hanno saputo fare i nostri padri negli anni Sessanta.
Che fare per superare i limiti di una visione chiusamente europea?
Più difficile rispondere alla domanda che ponevo all’inizio del mio intervento: se nel nostro bagaglio di conoscenze ed esperienze sugli spazi pubblici e sulla città c’è – come fermamente ritengo – qualcosa che ha un valore generale, nel senso che si possa proporlo, come stimolo a un ragionamento più vasto, a tutte le culture e i popoli del mondo, ebbene, allora in che cosa consiste questo “qualcosa”, o in che direzione possiamo cercarlo?Due condizioni
In primo luogo è necessario un atto di umiltà.
È necessario, come l’etimologia suggerisce, tenere i nostri piedi ben piantati nel nostro humus, nella terra e della natura nella quale sono le nostre radici – e insieme i nostri limiti.
È necessaria insomma la consapevolezza che il nostro livello di conoscenza delle diverse storie, culture, civiltà che abitano il nostro pianeta non è sufficiente ad affermare che le nostre possano porsi a modello degli altri popoli.
Non voglio nascondere che condividere fino in fondo questa posizione comporta per ciascuno di noi dei sacrifici: non possiamo più pretendere di andare in giro nel mondo portando la nostra cassetta degli attrezzi e adoperarlo per aggiustare le città, o le società e i costumi, o le economie e le loro priorità come faremmo a casa nostra.
In secondo luogo, dobbiamo circoscrivere i nostro obiettivi.
Mi sembra che l’obiettivo che possiamo proporci è di individuare quali siano i requisiti che deve possedere l’habitat dell’uomo per garantire, a ciascuno e a tutti (cioè a ogni singola persona e all’insieme del genere umano) un habitat a misura d’uomo.
I requisiti
Credo che non sia difficile definire quali sono questi requisiti, in riferimento a ciò che un’adeguata organizzazione dello spazio può fornire.
Innanzitutto, un luogo ove sia, o sia realizzabile, un riparo nel quale la persona, o il gruppo sociale elementare (nella nostra cultura la famiglia) possa essere a riparo sia dagli accadimenti meteorici sia dalle intrusioni di elementi esterni.
Diciamo la casa, nella sua configurazione essenziale.
In secondo luogo, le strutture essenziali per garantire quelle funzioni che non servono soltanto la singola persona o il singolo nucleo, ma le comunità più vaste cui ciascuno appartiene: i differenti livelli in cui quella determinata società è organizzata, in virtù della suo storia, la sua economia, la sua cultura.
Poi la rete dei collegamenti che consenta ai diversi soggetti tra i diversi luoghi che essi devono raggiungere. Infine, poiché il pianeta, le sue risorse naturali e la sua superficie, il suolo non devono essere utilizzate soltanto dalle persone oggi presenti e vive ma anche dai posteri, occorre che le trasformazioni fisiche riducano al minimo possibile il consumo di tali risorse; utilizzando non solo gli innumerevoli modi, strumenti, materiali, tecniche inventati nella nostra civiltà tecnologicamente avanzata, ma anche e forse soprattutto quelli che le civiltà più antiche della nostra hanno utilizzato.
Ma la nostra idea di città non comprende solo l’organizzazione fisica e funzionale dell’habitat.
Città per noi è anche società (quindi è anche memoria, identità cultura, bellezza) ed è anche politica (quindi possibilità di fruire di spazi in cui i diversi gruppi sociali possono riunirsi, scambiare informazioni e confrontare posizioni, discutere e decidere).
Ecco allora che l’organizzazione dello spazio deve farsi carico anche di tutelare e mettere in evidenza gli elementi che testimoniano e celebrano la storia e accrescano la bellezza già presente nei territori.
Ed ecco che laddove questi requisiti vogliano essere assicurati, gli spazi pubblici si rivelano necessari, non solo come elementi fisici e funzionali della città, ma anche come sedi per l’esercizio della democrazia nella società. Come cerniera tra la societas e le altre componenti della città.
Per concludere.
Non siamo noi qui, in questa sala, in Italia, in Europa e nel Primo mondo, che possiamo sapere se, al di fuori di questi recinti possano essere condivisi i principi che stanno dietro a quei requisiti che ho ora elencato.
Né tanto meno possiamo presumere in che modo essi – se condivisi altrove – possano trasformarsi in concrete trasformazioni dell’habitat dell’uomo. Sappiamo solo che dobbiamo cercare ancora, e ragionare ancora, ma con gli altri.
Grazie a tutte e a tutti, che mi avete pazientemente ascoltato.
E arrivederci a “Leggere la città 2016”.