La mission di Pompei non Fiori ma opere di restauro

 

Articolo di Tomaso Montanari pubblicato con questo titolo il 30 aprile 2015 sulla cronaca di Napoli del quotidiano “La Repubblica”: pone l’attenzione sul problema della valorizzazione in contrasto con la tutela.

MA Marcello Fiori è un incompreso profeta della valorizzazione del patrimonio culturale o un dilapidatore (doloso o colposo) della finanza pubblica? 

Immagine.Marcello Fiori

Marcello Fiori

Leggendo l’ordinanza con cui la Corte dei conti ha in parte accolto le richieste del sostituto procuratore Luciano, disponendo il sequestro di 2.164.932 euro appartenenti all’ex commissario straordinario di Pompei, ora coordinatore dei club Forza Silvio, si capisce che saranno queste due tesi a fronteggiarsi nel processo contabile che lo vedrà imputato. 

Le due domande intorno alle quali si concentrerà il dibattimento sono le seguenti: la valorizzazione rientrava, o no, nei poteri del commissario? 

E i lavori condotti al Teatro Grande di Pompei sono atti di valorizzazione, o no? 

A questa prospettiva bisognerebbe, in verità, affiancarne un’altra, ancor più radicale. 

Per il Teatro Grande è ormai purtroppo divenuta pertinente la confusione che, nel linguaggio comune, chiama spesso “ristrutturazione” il “restauro”. 

Perché si è trattato di una vera e propria ristrutturazione — rectius cementificazione — di un monumento antico: e il danno vero è quello prodotto dal cemento, e dagli altri interventi estranei e sfiguranti.

 Immagine.Teatro grande prima dei lavori

Teatro Grande prima dei lavori

 Immagine.Teatro Grande dopo i lavori

Teatro Grande dopo i lavori

E dunque il vero danno (anche erariale) non è solo quello dei finanziamenti impiegati, ma anche quello inferto al monumento, e poi anche quello rappresentato dalle spese che ne comporterà la (forzatamente parziale) rimessa in pristino. 

Ma questa sarà, semmai, materia di un altro processo, strettamente legato all’indagine penale. 

Veniamo invece alla questione affrontata nell’ordinanza. 

Il commissariamento di Pompei era stato motivato con la situazione di grave pericolo in atto nell’area archeologica, e con la necessità di attuare subito la messa in sicurezza. 

Ora, va contro il senso comune ( oltre che contro la lettera e lo spirito dei poteri straordinari conferiti al commissario) rubricare come “messa in sicurezza” la spesa di 5.966.000 euro per ricostruire la struttura portante del palcoscenico del teatro, per realizzare il piano di calpestio di quest’ultimo, le torri-luce con relativo impianto e i camerini. 

Non si tratta evidentemente di tutela, ma di qualcosa che potrebbe, semmai, essere rubricata sotto il nome di valorizzazione.

Ma questa confusione tra misure ordinarie e straordinarie, per non dire quella tra effimero e stabile, non è un’invenzione del commissario Fiori: questi si è limitato a interpretare (saranno i processi a dirci se spingendosi fino al compimento di reati e alla produzione di danni all’erario) la retorica corrente della procedura di emergenza come strumento per il governo dell’ordinario. 

Pompei è nello stesso Paese del Mose e dell’Expo: e soprattutto nello stesso Paese dello Sblocca Italia e nel disegno di legge Madia sulla mitologica “semplificazione”.

Due leggi, queste ultime, con le quali il governo Renzi ha dimostrato di non voler affatto rompere con il regime dell’emergenza: come se per “fare” (ciò che tutti vogliamo) non fosse necessario disboscare in modo razionale la giungla delle norme contraddittorie, ma fosse possibile (e anzi preferibile) aggirare le singole leggi con la figura eccezionale del commissario, o della corsia di emergenza. 

Durante l’audizione parlamentare preliminare all’approvazione dello Sblocca Italia, la Banca d’Italia ha inutilmente provato a mettere in guardia circa il potenziale criminogeno delle procedure eccezionali: avendo buon gioco a prevedere che l’unico frutto della legge sarebbe stata (oltre al cemento) la corruzione. 

E dunque i processi a Fiori saranno importanti perché potranno dimostrare, ex post e su un caso preciso ed eccellente, quanto sia necessario abbandonare questa strada, sempre contrabbandata come innovativa, e in verità già tante volte disastrosamente sperimentata.

C’è, infine, la seconda questione. 

Ammesso, e non concesso, che il commissario potesse fare anche valorizzazione, sfigurare un monumento per trasformarlo in “set” è valorizzazione o no? 

Se io fossi l’avvocato difensore di Fiori, convocherei come testimoni il ministro per i Beni culturali Dario Franceschini, il presidente del Consiglio superiore dei Beni culturali Giuliano Volpe e il professore di archeologia Daniele Manacorda. 

Che sono gli entusiastici sostenitori dell’idea di costruire arena e spalti nel Colosseo, per adibirlo a location di spettacoli di cassetta su cui lucrare i diritti televisivi.

Un’idea che non solo subordina la conoscenza alla spettacolarizzazione, ma che interpreta la valorizzazione come messa a reddito, trasformandola in una scelta “politica” (la propugna il ministro, non il soprintendente) totalmente separata dalla tutela. 

E, anzi, potenzialmente in conflitto con quest’ultima: perché non si dica che adibire il Colosseo a luogo di spettacoli di massa sarebbe compatibile con una corretta conservazione e fruizione del monumento. La Pompei di Fiori come laboratorio della valorizzazione-spettacolarizzazione dell’età di Renzi? 

È forse presto per dirlo, ma è certo che il processo contabile che si celebrerà a Napoli promette di avere un significato che trascende di gran lunga il caso specifico, pur clamoroso.

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