Articolo della Vice Presidente di VAS Simona Capogna, pubblicato con questo titolo il 21 magio 2015 sul sito “il Test”, scritto per l’occasione della X giornata di Mangiasano. Sono chiamate per lo più “malerbe”, “infestanti”, “erbacce” e crescono spontanee nei prati, sui cigli delle strade, nei giardini, negli orti. Sembrano, quindi, qualcosa di inutile e dannoso che deve essere eliminato con tutti i mezzi a disposizione, meccanici o chimici. Eppure, fino al secondo dopoguerra, molte di queste erbe selvatiche hanno costituito un’importante risorsa alimentare. La “fitoalimurgia” (studio delle piante a uso gastronomico) era diffusa e tramandata; ogni pianta commestibile aveva un suo nome locale, era cucinata con una o più ricette tradizionali ed era al centro di una leggenda, un racconto, un mito. Questo sapere era parte integrante della comunità: costituiva un elemento simbolico di riconoscimento che rafforzava il senso di appartenenza e di identità. Poi, il progresso ha gradualmente e inesorabilmente cancellato la memoria. Le persone, potendo scegliere altro, hanno smesso di usare e di nominare le erbe spontanee edibili e pian piano hanno smesso di riconoscerle. E così, nei prati sono tornate le “malerbe”, senza alcuna distinzione. Una storia in controtendenza È quella delle “buonerbe” che vengono offerte nei menu degli agriturismi, insegnate nei corsi di riconoscimento, riscoperte dai bambini nelle fattorie didattiche. Possono vantare un posto di eccellenza all’interno di Orti Botanici e nei corsi di studio delle Università, e sempre più spesso sono “pubblicate” su riviste di settore e su blog di appassionati. Non si tratta, quindi, di una tradizione arcaica sostenuta solo da qualche anziano o da sporadici hobbisti, ma di un rinnovato entusiasmo trasversale per un interesse moderno. Per alcuni si tratta di economia (aziendale e familiare), per altri di scienza, per altri ancora di “spirito” (perché un prato fiorito ci permette […]