Palmira e la democrazia della cultura

 

L’articolo di Tomaso Montanari, pubblicato con questo titolo il 26 maggio su “La Repubblica”, mette in risalto le ipocrisie dell’Occidente circa l’uso del patrimonio artistico nei paesi non democratici: VAS ne condivide i contenuti.

Immagine.Palmira

Siamo tutti annichiliti dalla bestialità con cui l’Is distrugge lo straordinario patrimonio culturale dei territori che conquista. 

È probabilmente dalla Seconda Guerra Mondiale che l’umanità non perde monumenti così importanti. Eppure c’è qualcosa che non mi convince nel modo in cui la stampa occidentale sta raccontando questo scempio. 

L’Is vuol far credere di essere uno stato e uno stato islamico: anzi, vuol far credere di rappresentare l’Islam e di guidare la guerra santa contro l’Occidente. 

Un messaggio che rischia di far sempre più presa sulle masse islamiche diseredate, e perfino su singoli ragazzi occidentali che odiano tanto il mondo in cui sono cresciuti, da volerlo abbattere. 

Ebbene, a me pare che la narrazione dell’iconoclastia sia funzionale a questo disegno: l’Is punta moltissimo sull’enorme eco che la distruzione dei monumenti ha in Occidente, e punta tutto sul fatto che questa distruzione venga letta come una prova ideologica del fatto che saremmo di fronte ad uno Scontro tra Civiltà, la guerra dell’Islam iconoclasta contro la Cristianità idolatra. Ma se Palmira diventa la prova dello Scontro tra Civiltà, la distruggiamo due volte: una volta materialmente, e una volta spiritualmente, facendone (nostro malgrado e senza accorgercene) uno strumento di propaganda dei suoi carnefici.

La verità è che i capi del Is non sono degli invasati convinti delle proprie idee, ma sono dei cinici amministratori delle proprie finanze e della propria immagine: cioè hanno fatto loro il peggio di quell’Occidente che dicono di voler combattere.

E una delle prove di questo riguarda proprio il patrimonio artistico dell’Iraq e ora della Siria: che viene distrutto in minima parte (e a favore di telecamera), e per il resto viene venduto sul mercato nero a collezionisti occidentali. 

Un quadro delle cose assai meno capace di esercitare del fascino sulle masse islamiche, e certamente poco utile ad avvalorare l’idea di una jihad, di una Guerra Santa contro l’Occidente. E se vogliamo dirla fino in fondo, questa oscena intesa commerciale tra presunti profeti antioccidentali e plutocrati ultraoccidentali ci costringe a guardare in faccia tutte le ipocrisie dell’Occidente circa l’uso del patrimonio artistico nei paesi non democratici. 

Perché non è che quando Palmira era in mano ad un regime sanguinario come quello siriano andasse tutto bene. 

Proprio a Palmira c’era la più grande prigione dove i dissidenti interni venivano reclusi e torturati: a pochi chilometri dalle comitive di turisti occidentali. 

Come suggerisce Sergio Staino nell’ultimo numero di “Cultura Commestibile”, in Occidente siamo ormai così convinti che il patrimonio culturale legittimi il potere e il denaro, che non siamo stati mai capaci (e forse nemmeno mai interessati) ad usarlo per costruire democrazia in Medio Oriente: quale governo occidentale ha fatto leva sui monumenti (e sul turismo che attirano) per accelerare il processo democratico in paesi come l’Egitto, la Libia o la stessa Siria?

Quando nello stesso giorno sono stati attaccati il Parlamento di Tunisi e il Museo del Bardo mi è parso evidente che si volessero colpire due simboli della democrazia: il museo non veniva attaccato per distruggere opere d’arte ‘infedeli’, ma per colpire uno spazio pubblico consacrato alla produzione di conoscenza. 

Non uno scontro tra civiltà, ma un attacco della barbarie all’unica civiltà possibile: quella della democrazia. 

E se noi fatichiamo a capirlo è perché fatichiamo a considerare musei e monumenti come organi vitali della democrazia  –  nonostante ciò che dice l’articolo 9 della Costituzione italiana. 

Come spesso succede (si pensi a Cosa Nostra che nel 1969 ruba un Caravaggio da una chiesa dell’abbandonato centro di Palermo) i nostri nemici rischiano di vedere più nitidamente di noi l’importanza di luoghi di cui noi non ci curiamo.

Ora è il momento di piangere le distruzioni, ma il modo migliore per farlo non è annegare quel che resta delle rovine in un mare di retorica a buon mercato. 

Specie se gli argomenti di questa retorica finiscono col coincidere (seppur col segno invertito) con quelli della propaganda dell’Is.

 

 

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