Sos Ginori il museo che nessuno visita più

 

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C’è da giurare che se Sesto Fiorentino non sorgesse, appunto, al sesto miglio a nord di Firenze, il Museo di Doccia Richard Ginori sarebbe già stato riaperto.

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E invece la sovrabbondanza museale fiorentina (ben 3 sui famosi 20 supermusei di Franceschini sono qua) ha fatto passare sotto silenzio un danno di prima grandezza per il patrimonio storico e artistico nazionale.

Il Museo Ginori, infatti, è uno dei più antichi musei industriali del mondo.

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Quando nacque, nel 1754, consisteva nella Galleria della Villa di Doccia (frazione di Sesto) in cui il marchese Carlo Ginori aveva deciso di esporre i migliori prodotti della sua miracolosa fornace, che era in breve tempo diventata uno degli epicentri europei dell’arte della porcellana.

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La capacità chimiche di Carlo, quelle imprenditoriali del figlio Lorenzo e la possibilità di attingere allo sconfinato repertorio artistico e decorativo fiorentino resero quella della Ginori una storia di successo: quando, nel 1893, essa fu acquistata dalla milanese Richard, la produzione annua ascendeva alla quota strepitosa di otto milioni di pezzi.

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Il museo (che di pezzi ne ha invece ottomila, e dal 1965 è ospitato in edificio costruito ad hoc da Pier Niccolò Berardi, architetto del Gruppo Toscano di Giovanni Michelucci) racconta passo a passo questa vicenda, partendo dalle vere e proprie sculture tardobarocche prodotte ai tempi di Carlo, e seguendo l’evoluzione del gusto italiano ed europeo fino ai capolavori di Giò Ponti.

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In qualunque paese d’Europa un simile luogo sarebbe l’epicentro di un’intensa attività di ricerca, divulgazione e produzione culturale.

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Invece, il museo è chiuso ormai da un anno e mezzo.

Il museo — tuttora proprietà privata dell’azienda — è rimasto vittima del brutto fallimento della Richard Ginori, in seguito al quale l’ex amministratore delegato e sei membri del cda sono stati rinviati a giudizio per bancarotta fraudolenta.

L’attività produttiva è stata rilevata dalla Gucci, che ha rinnovato il negozio di Firenze e ha dato nuovo impulso alle esportazioni.

Ma — smentendo la retorica del privato che salva il patrimonio culturale — né Gucci né alcun altro si sta facendo avanti per comprare, e dunque riaprire, il museo.

Poche sere fa, in un’assemblea pubblica i sestesi hanno “gridato” che rivogliono il “loro” museo: un modo per dire che Sesto non si rassegna a farsi ridurre alla pattumiera in cui Firenze scarica i suoi servizi ingombranti, dall’aeroporto all’inceneritore.

Si è sentito affermare con lucidità che il Museo Ginori non è solo un deposito d’arte, ma è l’unico luogo cittadino che racconta l’epopea di una comunità di lavoratori, orgogliosamente legati a una sapienza manuale tramandata di generazione in generazione.

È straordinario che, in tempi come questo, i cittadini vadano in piazza a chiedere un museo: e, in un paese normale, a questo punto si farebbero avanti il Comune, o il Ministero per i Beni culturali.

Perché il museo si compra con sei o sette milioni, cioè con la cifra che buttiamo per un paio di mostre stagionali, meno della metà di quanto costerà l’arena kitsch del Colosseo.

Non sarebbe difficile riaprirlo, né dotarlo di una giovane comunità di ricercatori capace di farlo funzionare come polmone civile.

La sfida è aperta: c’è qualcuno che ha un progetto per Sesto Fiorentino?

 

(Articolo di Tomaso Montanari, pubblicato con questo titolo il 7 settembre 2015 su “La Repubblica”)

 

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