Dare un prezzo al carbonio per salvare il Pianeta

 

Dare un prezzo al carbone.

Volendo essere ottimisti, al vertice di Parigi può andare tutto bene: si raggiunge un accordo vincolante, con meccanismi periodici di verifica sugli impegni di taglio alle emissioni presi da ogni Paese e sufficienti a contenere l’aumento delle temperature entro i due gradi.

Fatto ciò, però, rimarrebbe ancora scoperto un nodo fondamentale: come rispettare le promesse fatte? I governi hanno strumenti politici per introdurre misure nazionali, possono incentivare fonti rinnovabili e risparmio energetico.

Ma c’è un’altra categoria di strumenti, cui guardano con favore la Banca Mondiale, l’Fmi e un numero crescente di Stati, dalla Francia alla Germania alla Cina: il carbon pricing, dare cioè un prezzo alle emissioni.

Alla Cop 21 è stata annunciata ufficialmente la Carbon Pricing Leadership Coalition, una coalizione di cui fanno parte i cugini francesi e tedeschi, insieme a Paesi come il Messico e il Cile e a una novantina di imprese e Ong.

Obiettivo è sollecitare tutte le nazioni a mettere un prezzo sul carbonio, in modo da influenzare gli attori economici a emettere meno CO2.

Le strade sono due e si basano su meccanismi di mercato: la carbon tax e il tetto e commercio delle emissioni, che sono già in uso in 40 nazioni e 23 città e regioni.

Poi c’è la terza via: il contributo climatico su beni e servizi.

La carbon tax è la tassa su fonti fossili primarie che varia in base al contenuto di carbonio: più onerosa sul carbone, meno sul petrolio, meno ancora sul metano.

In questo modo il combustibile fossile viene a costare di più e la fonte rinnovabile, mediamente più costosa, diventa più competitiva.

Il vantaggio – spiega all’ANSA Massimo Natale Caminiti, esperto Enea della delegazione italiana alla COP21 – è la facilità: “si decide a quanto deve ammontare, ad esempio 20 dollari a tonnellata di CO2“.

Lo svantaggio è che la tassa “viene pagata, in maniera nascosta, dai consumatori in bolletta“. Il tetto e commercio delle emissioni (Ets) è il mercato della CO2.

Il più grande è in Europa, dove è in vigore dal 2005.

A differenza della carbon tax, “viene imposto un tetto alle emissioni e poi si lascia fluttuare liberamente il costo del carbonio da ridurre“, dice Caminiti.

L’azienda che emette CO2 deve essere autorizzata a farlo e deve comprare le quote che pensa di emettere.

Il meccanismo è andato bene fino alla crisi economica, quando la contrazione della produzione ha portato a un calo naturale delle emissioni sotto la soglia fissata dalle autorità, facendo precipitare il prezzo delle quote da 20 a 2-3 dollari a tonnellata.

Troppo poco per un potere deterrente.

La Cina è tra i Paesi che sta pensando all’Ets, mentre Francia e Inghilterra, che ce l’hanno su settore termoelettrico e grande industria, applicano la carbon tax ai trasporti e agli usi civili.

La tassa, sottolinea Caminiti, potrebbe però essere sostituita da un “contributo climatico” su prodotti e servizi.

Comprando un paio di scarpe, ad esempio, in etichetta si troverà l’indicazione delle emissioni generate per la sua produzione e il relativo prezzo.

Il costo ricadrà sul cittadino, ma in modo “trasparente” e dandogli un elemento di scelta tra due paia di scarpe, prodotte in modo diverso magari in Paesi diversi.

A prescindere dal metodo scelto, “è importante che a Parigi si trovi un accordo anche sugli strumenti da implementare a livello internazionale“, evidenzia Caminiti.

Senza strumenti gli obiettivi rimangono appesi. Con gli strumenti si possono mobilitare capitali per investimenti ‘low carbon’“.

 

(Articolo di Laura Giannoni, Ansa del 2 dicembre 2015, ore 00:52)

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