Le spine e la rosa: al referendum vince o perde l’Italia (non Renzi)

 

Riforma di Renzi

Chi l’avrebbe detto?

Un Parlamento espresso con una legge elettorale (il Porcellum) annullata poi dalla Consulta; sbucato dalle urne senza una maggioranza chiara, anzi con tre grandi minoranze (Pd, FI, 5 Stelle) armate l’una contro l’altra; lì per lì incapace perfino d’eleggere il capo dello Stato, tanto da confermare l’uscente (Napolitano), episodio senza precedenti, prima di eleggere Mattarella; ecco, quelle Camere impotenti timbrano la riforma più potente, consegnando agli italiani una Costituzione tutta nuova.

Sicché adesso tocca a noi, ci tocca la parola.

Ma è una parola secca: sì o no, prendere o lasciare.

Per non sprecare quel monosillabo dovremmo ragionarci sopra, dovremmo soppesare la riforma, senza furori ideologici, senza tifo di partito.

Al referendum vince o perde l’Italia, non Matteo Renzi.

La Costituzione gli sopravvivrà, a lui come a noi tutti.

Dunque la scelta investe il nostro destino collettivo, non le fortune di un leader.

E dietro l’angolo non c’è affatto il rischio d’un ducetto; semmai rischiamo un’altra Caporetto.

Perché le istituzioni repubblicane, dopo settant’anni d’onorata carriera, hanno vari acciacchi sul groppone; la cura ri-costituente può guarirle, ma può altresì accopparle.

Sarebbe stato giusto concederci l’opportunità di rifiutare o d’approvare questa riforma per singoli capitoli, nei suoi diversi aspetti.

Non è così, il nostro è un voto in blocco: se vuoi la rosa, devi prenderti le spine.

Ciò tuttavia non cancella l’esigenza d’esaminare il testo «nel dettaglio», come auspica un folto gruppo di costituzionalisti su Federalismi.it.

Scorporando le questioni, magari in ultimo potremmo stilare una pagella, mettendo su ogni voce un segno meno o più.

Se le promozioni superano le bocciature, voteremo sì; altrimenti bocceremo tutta la riforma.

Se invece la somma è pari a zero, significa che non è cambiato nulla.

In Italia succede di sovente.

Ma intanto ecco l’elenco degli esami.

Primo: il potere.

La riforma lo concentra, lo riunifica.

Una sola Camera politica (l’altra è una suocera: elargisce consigli non richiesti).

Un governo più stabile e più forte, senza la fossa dei leoni del Senato, che ha divorato Prodi e masticato tutti i suoi epigoni, nessuno escluso.

E uno Stato solitario al centro della scena.

Via le Province, pace all’anima loro.

Via le Regioni, cui la riforma toglie di bocca il pasto servito nel 2001, sequestrandone funzioni e competenze: dal federalismo al solipsismo.

Perciò il decisionista Carl Schmitt voterebbe questo testo, l’autonomista Carlo Cattaneo lo disapproverebbe.

Voi da che parte state?

Secondo: l’efficienza.

Una maggior concentrazione del potere dovrebbe assicurarla, però non è detto, dipende dalle complicazioni della semplificazione.

L’iter legis, per esempio: qui danno le carte soltanto i deputati, tuttavia il Senato può emendare, la Camera a sua volta può respingere a maggioranza semplice, ma talora a maggioranza assoluta.

Mentre rimangono pur sempre 22 categorie di leggi bicamerali.

Insomma, dalla teoria alla prassi il principio efficientista rischia di rivelarsi inefficiente.

E voi, siete teorici o pragmatici?

Terzo: le garanzie.

Nessuno dei 47 articoli nuovi di zecca sega le attribuzioni dei garanti: la magistratura, la Consulta, il capo dello Stato.

Ma sta di fatto che quest’ultimo dimagrisce quando mette pancia il presidente del Consiglio, giacché in una Costituzione tout se tient.

Con un’unica Camera dominata da un unico partito (per effetto dell’Italicum), addio ai governi del presidente, quali furono gli esecutivi Dini, Monti, Letta.

Ma addio anche al potere di sciogliere anzitempo il Parlamento: di fatto, sarà il leader politico a decretare vita e morte della legislatura.

E addio alla garanzia del bicameralismo paritario, che a suo tempo bloccò varie leggi ad personam cucinate da Berlusconi.

In compenso la riforma pone un argine ai decreti del governo, promette lo statuto delle opposizioni, aggiunge il ricorso preventivo alla Consulta sulle leggi elettorali.

Ma il compenso compensa lo scompenso?

Quarto: la partecipazione.  

Quali strumenti di decisione e di controllo restano in tasca ai cittadini?

E quanto sarà facile tirarli fuori dalla tasca?

Intanto aumenta la fatica di raccogliere le firme: da 50 a 150 mila per l’iniziativa legislativa popolare; da 500 a 800 mila per il referendum abrogativo, in cambio dell’abbassamento del quorum.

Però i regolamenti parlamentari dovranno garantire tempi certi per i progetti popolari, però s’annunziano altre due tipologie di referendum (propositivo e d’indirizzo).

Peccato che la volta scorsa ci sia toccato pazientare 22 anni (la legge sui referendum è del 1970).

Dunque è questione d’ottimismo, di fiducia.

E voi, siete ottimisti o pessimisti?

 

(Articolo di Michele Ainis, pubblicato con questo titolo l’11 aprile 2016 sul “Corriere della Sera”)

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