La centrale nucleare di Chernobyl fotografata ai margini della “zona proibita”, nel villaggio abbandonato di Krasnoselie, Bielorussia Uno dei ricordi di Chernobyl che rimane più impresso nella mente sono le izbe della “exclusion zone”, casette senza più abitanti su cui si avventano gli alberi, come serpenti, per soffocarle. Immagine simbolo di un luogo “liberato” dalla presenza umana, su cui la natura ha il sopravvento. Una riserva unica al mondo, macchiata però dal mostro invisibile delle radiazioni, che ancora contaminano queste terre perpetuandosi attraverso le bacche, i fumi, la polvere, la pioggia, per migliaia di chilometri quadrati tra Bielorussia, Ucraina, Russia. Nell’introduzione a “Preghiera per Chernobyl”, il libro del premio Nobel Svetlana Aleksievich, Keith Gessen ricorda come l’esplosione del reattore e l’incendio nucleare scoppiato il 26 aprile 1986 alla centrale di Chernobyl, Ucraina (allora Unione Sovietica), provocarono più superstiti che vittime. Nelle settimane successive furono 31 i lavoratori della centrale e i pompieri uccisi dalle radiazioni. Ma sono decine di migliaia le persone che si ammalarono in seguito, un coro disperato e senza numero perché non c’è un modo per stabilire con certezza, negli anni, la responsabilità di morti e malattie legate a Chernobyl. I liquidatori, i “chernobyltsy”, mandati allo sbaraglio quella notte. Oppure i bambini nati tanti anni dopo, in terre ancora condannate dal cesio. E come spesso avviene, in occasione di un anniversario si risveglia l’attenzione su un tema dimenticato. Il mondo torna a posare gli occhi su Chernobyl e per qualche giorno si chiede: 30 anni dopo, che succede là dove è avvenuto uno dei più gravi disastri nucleari della storia? Ha un senso per Chernobyl usare la parola “guarire”? O quale prezzo pagano ancora le foreste, gli animali? E gli uomini? C’è di nuovo vita intorno a Chernobyl, malgrado chiamino “zona della morte” l’area proibita all’uomo, […]