Trent’anni dopo, cosa resta della tragedia senza fine di Chernobyl

 

Centrale di Chernobyl

La centrale nucleare di Chernobyl fotografata ai margini della “zona proibita”, nel villaggio abbandonato di Krasnoselie, Bielorussia

Uno dei ricordi di Chernobyl che rimane più impresso nella mente sono le izbe della “exclusion zone”, casette senza più abitanti su cui si avventano gli alberi, come serpenti, per soffocarle.

Immagine simbolo di un luogo “liberato” dalla presenza umana, su cui la natura ha il sopravvento.

Una riserva unica al mondo, macchiata però dal mostro invisibile delle radiazioni, che ancora contaminano queste terre perpetuandosi attraverso le bacche, i fumi, la polvere, la pioggia, per migliaia di chilometri quadrati tra Bielorussia, Ucraina, Russia.

Nell’introduzione a “Preghiera per Chernobyl”, il libro del premio Nobel Svetlana Aleksievich, Keith Gessen ricorda come l’esplosione del reattore e l’incendio nucleare scoppiato il 26 aprile 1986 alla centrale di Chernobyl, Ucraina (allora Unione Sovietica), provocarono più superstiti che vittime.

Nelle settimane successive furono 31 i lavoratori della centrale e i pompieri uccisi dalle radiazioni.

Ma sono decine di migliaia le persone che si ammalarono in seguito, un coro disperato e senza numero perché non c’è un modo per stabilire con certezza, negli anni, la responsabilità di morti e malattie legate a Chernobyl.

I liquidatori, i “chernobyltsy”, mandati allo sbaraglio quella notte.

Oppure i bambini nati tanti anni dopo, in terre ancora condannate dal cesio.

E come spesso avviene, in occasione di un anniversario si risveglia l’attenzione su un tema dimenticato.

Il mondo torna a posare gli occhi su Chernobyl e per qualche giorno si chiede: 30 anni dopo, che succede là dove è avvenuto uno dei più gravi disastri nucleari della storia?

Ha un senso per Chernobyl usare la parola “guarire”?

O quale prezzo pagano ancora le foreste, gli animali?

E gli uomini?

C’è di nuovo vita intorno a Chernobyl, malgrado chiamino “zona della morte” l’area proibita all’uomo, per un raggio di 30 km dalla centrale.

Gli scienziati mettono le mani avanti: non esistono ancora studi affidabili che valutino con precisione l’impatto di quella nube radioattiva e i rischi per la salute, ora e negli anni a venire.

Nella “exclusion zone” però il ritorno di diverse specie animali, anche protette, potrebbe far pensare che per loro l’impatto dell’assenza dell’uomo sia superiore a quello negativo della radioattività.

Lupi, volpi, cinghiali, cavalli selvatici, linci, cervi: “La distribuzione degli animali non è influenzata dai livelli della radioattività”, hanno concluso i ricercatori americani della Georgia University.

Anche se intorno alla centrale esplosa, oppure tra le strade spettrali di Pripyat – la città dei dipendenti evacuata solo a diverse ore dal disastro – i tassi di radioattività variano tantissimo.

Aumentano precipitosamente scavando nel terreno: la ragione per cui a Pripyat nessuno potrà mai più tornare.

Ma più lontano, qua e là nei villaggi, qualcuno pian piano è tornato: anziani su cui le autorità ucraine chiudono un occhio, 300 persone troppo povere per vivere altrove, o troppo legate alla propria casa per lasciarla.

Vecchi convinti che per raggiungerli la radioattività impiegherebbe più tempo di quanto resta loro da vivere.

Non fanno turni nella “zona della morte”, a differenza delle circa 6.000 persone impegnate nello smantellamento della centrale.

E poi ci sono gli abitanti dei villaggi oltre la “zona di esclusione”, nelle province russe e bielorusse più vicine all’Ucraina, investite 30 anni fa dalla nube e ancora in prima linea nel pagarne le conseguenze, soprattutto ora che la crisi economica riduce gli aiuti dei rispettivi governi.

Ma anche nel calcolo delle vittime dell’incidente – quelle degli anni passati e quelle che verranno – le stime variano tantissimo e sono controverse.

Si parla di qualche migliaia di morti oppure – è l’opinione di Greenpeace – di 100mila.

A ogni anniversario si moltiplicano i rapporti scientifici che cercano di quantificare l’impatto dell’esposizione alla polvere radioattiva analizzando l’aumento dei casi di tumori alla tiroide tra i bambini, il calo demografico e l’infertilità delle donne, le malformazioni genetiche.

Non c’è bisogno di un numero preciso per dare una dimensione infinita alla tragedia di Chernobyl.

Tra le voci che gridano dalle pagine del libro di Svetlana Aleksievich c’è quella di Lyudmilla Ignatenko, moglie di Vasily.

Uno dei primi mandati a spegnere l’inferno, come se fosse stato un incendio qualsiasi.

Torno presto”, le disse quella notte.

Mentre lui moriva, in ospedale a Mosca, soffocato dai suoi stessi organi sfracellati, volevano impedire a Lyudmilla di abbracciarlo: “Non è più tuo marito, non è più una persona amata, ma un oggetto radioattivo”.

Ora a Chernobyl c’è un monumento che onora i “liquidatori”, un gruppo di statue grigie di pompieri con un semplice idrante in mano, attorno a una stele e a una croce.

E c’è una targa: “A coloro che hanno salvato il mondo”.

 

(Articolo di Antonella Scott, pubblicato con questo titolo il 25 aprile 2016 su “Il Sole 24 Ore”)

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