Come la Consulta ha cambiato l’Italia

 

Consulta.

In principio fu una manciata di volantini gettati sul volto dei poliziotti, in via Frascati a Prato.

Gli autori di quel gesto provocatorio, due giovani operai tessili, avevano un’unica finalità: essere denunciati per aver infranto una legge del codice penale fascista, l’articolo 113 che vietata il volantinaggio senza autorizzazione.

Era il dicembre del 1955.

Il pretore di Prato, un siciliano trentacinquenne molto combattivo, non aspettava altro che trovarsi davanti i due imputati, Enzo Catani e Sergio Masi, per chiedere il pronunciamento della neonata Corte Costituzionale: poteva ancora valere, in un regime democratico, quella vecchia legge varata dal fascismo?

Avvocati dei due operai, Giuliano Vassalli, Vezio Crisafulli e Massimo Severo Giannini, ossia il meglio della cultura giuridica del dopoguerra.

Il nome del procuratore?

Antonino Caponnetto.

Molti anni dopo, in occasione del sessantesimo anniversario della Corte Costituzionale – l’organo di garanzia che giudica la legittimità costituzionale delle leggi e degli atti di Stato e Regioni lo storico Maurizio Fioravanti rivela un capitolo poco noto: la prima seduta pubblica della Consulta, il 23 aprile del 1956, riguardò un episodio sapientemente organizzato da un gruppo di giuristi per dare avvio allo smantellamento della legislazione fascista.

Perché allora era in gioco non soltanto la costituzionalità di quell’articolo 113, che certo limitava la libertà di opinione.

Ma era in gioco una questione molto più importante, ossia la facoltà della Consulta di giudicare le leggi varate del regime di Mussolini.

E fu quella prima storica sentenza — su richiesta di Caponnetto — a dare inizio alla demolizione dell’impalcatura giuridica del fascismo.

La Consulta e la vita degli italiani.

Basterebbe il principio della storia per illuminare il rapporto profondo tra la Corte e i diritti dei cittadini nei campi più diversi dell’esistenza, nelle relazioni sentimentali come nella fecondazione assistita, nel sostegno ai disabili e negli assegni di invalidità riconosciuti anche agli immigrati, nelle abitudini quotidiane che riguardano l’autovelox o la casa.

Le sentenze di questi ultimi quattro decenni hanno anticipato o assecondato i movimenti della società italiana, talvolta svolgendo un ruolo di supplenza rispetto al legislatore.

Però questo fondamentale ruolo pubblico viene largamente ignorato.

Da queste premesse è partito Giuliano Amato per promuovere un incontro con Mario Calabresi, Luciano Fontana e Alessandro Barbano — direttori di Repubblica, Corriere della Sera e Mattino — insieme alla presidente della Rai Monica Maggioni.

Come fare per comunicare di più e meglio con l’opinione pubblica?

Dai direttori dei quotidiani è arrivato un suggerimento: per far crescere la percezione della Corte sono necessarie chiarezza, trasparenza e tempestività.

«Potrebbe essere utile l’analogia con la Corte suprema americana », ha suggerito Mario Calabresi.

«Pur nella diversità del ruolo, i pronunciamenti delle due corti investono direttamente la vita dei cittadini. Negli Stati Uniti le decisioni vengono precedute da un dibattito tra giuristi e studiosi che crea una grande aspettativa.  

E il calendario degli appuntamenti decisivi viene pubblicizzato con cura.

Da noi si fa più fatica a stare dietro alle sentenze: spesso arrivano tardi rispetto ai tempi di chiusura del giornale.  

E l’eccesso di tecnicalità non aiuta: la corte dovrebbe avere la pazienza di spiegare in tre punti chiari la sostanza dei propri pronunciamenti».

Luciano Fontana insiste sulla trasparenza dei meccanismi di decisione: «Sarebbe importante conoscere le varie posizioni e anche le ragioni dei dissenzienti».

L’altro grande tema che attraversa la discussione è il rapporto tra Corte Costituzionale e politica, avendo spesso la Consulta esercitato “un ruolo di correzione “ rispetto al legislatore carente.

L’elenco delle sentenze anticipatrici è sterminato, molte riguardano i diritti delle donne e degli omosessuali.

Alcune vengono ricordate dalla Maggioni, dal riconoscimento della «natura discriminatoria della punizione del solo adulterio femminile» (1968) alla «illegittimità della sanzione penale prevista per il medico che procura aborto a una donna consenziente» (1975).

Risalgono agli anni Ottanta le sentenze sui diritti dei conviventi, di fatto equiparati a quelli dei coniugi.

Ed è stata sempre la Corte nel 2010 a riconoscere alle unioni gay «il diritto di vivere una condizione di coppia, con connessi diritti e doveri» (ma non il matrimonio).

E infine la legge 40 sulla fecondazione assistita: la Consulta ne ha eliminato le misure più restrittive, aprendo all’eterologa e sopprimendo il limite di tre embrioni.

«È questo un caso in cui non c’è stata discussione», ha commentato Amato.

«O, come avrebbe detto Crisafulli, la decisione era “a rime obbligate”».

Nessun dubbio, in sostanza: come quella prima storica sentenza di sessant’anni fa.

 

(Articolo di Simonetta Fiori, pubblicato con questo titolo il 29 aprile 2016 su “la Repubblica”)

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Vas