Caro Massimo Cacciari, sbagli

 

Piero Bevilacqua

Piero Bevilacqua

storico, scrittore e saggista italiano

L’intervista che Massimo Cacciari ha rilasciato a Ezio Mauro (Repubblica, 27.5.2016) per motivare il suo SI al referendum  confermativo della riforma del Senato, offre al lettore, io credo, un buon campionario di motivi per indurlo al comportamento contrario a quello perorato dal filosofo: cioé a votare decisamente NO.

Nel merito Cacciari arriva a definire  l’oggetto del referendum «una riforma modesta e maldestra. La montagna ha partorito un brutto topolino».

Poco prima, incalzato da Mauro, aveva ricordato che da decenni era nelle sue aspirazioni e nella parte più illuminata della sinistra, la creazione di «un autentico Senato delle Regioni con i rappresentanti più autorevoli eletti direttamente, e non scelti tra i gruppi dirigenti più sputtanati d’Italia, come oggi».

Come dissentire? 

E tuttavia, nonostante una sequela di giudizi così svalutativi e sprezzanti, egli dichiara che la riforma è da approvare comunque, perché finalmente si arriverebbe a decidere un cambiamento in materia istituzionale.

Quel che importa è che si faccia qualcosa.

Un ragionamento – mi perdonerà l’amico Cacciari – che non si discosta molto da quello  del padre della fanciulla che ha visto sfumare in gioventù tante occasioni di matrimonio e alla fine si acconcia a farla sposare allo sciancato del paese.

Perché almeno non resti zitella.

In verità le contorsioni poco persuasive con cui Cacciari cerca di motivare la sua scelta sono disseminate a ogni riga.

Ma non  son queste le pecche peggiori  del suo argomentare.

Egli fa una ricostruzione storica troppo sommaria e indistinta della sinistra in lotta per le riforme istituzionali.

Certo, una intervista non è mica un saggio, anche se condotta da un grande giornalista.

E tuttavia egli finisce con lo stabilire un nesso di continuità, diciamo tra la fondazione del Centro per la riforma dello Stato, voluta dal PCI nel 1972, con l’efficace direzione di Ingrao per tutti gli anni ’80, e il «brutto topolino» dei nostri giorni.

Con linguaggio certamente più fine e colto, Cacciari finisce col dare ragione a tanti giovanotti e fanciulle del PD, che negli ultimi tempi sono andati urlando per le TV d’Italia:  finalmente si sta realizzando «la riforma che l’Italia aspettava da 30 anni».

Come dimenticare, infatti le grandi manifestazioni popolari, nelle piazze di tutto il Paese, per invocare l’abolizione del Senato?

A ricordarcelo sono  esponenti politici che, a occhio, 30 anni fa frequentavano le prime classi delle elementari.

Ma questo è il follkore… 

La sostanza storica è che Cacciari mette insieme cose diverse e soprattutto non scorge la frattura tra le rivendicazioni dei decenni passati, anche sue, e le riforme di Renzi.

Intanto ricordiamo che l’esigenza di una riforma dello Stato, nata dentro alcuni settori del PCI,  non era ispirata solo da ragioni di efficienza della macchina decisionale, ma soprattutto  dalla volontà di un allargamento della democrazia.

Abbiamo dimenticato che, sino almeno all’ascesa di Craxi, l’Italia è stata governata, con la cooptazione di qualche forza satellite,  da un Partito-Stato, la DC, un monstrum unico in tutto l’Occidente? 

Per la verità, ricordando le battaglie federaliste degli ultimi decenni, Cacciari non dimentica le ragioni di una maggiore vicinanza delle istituzioni ai cittadini, ma proprio questo rende ancora più paradossale e insostenibile la sua posizione. 

A essere tradito oggi è esattamente l’ordito federalista da lui auspicato, a favore di un neocentralismo che sta sottraendo materie importanti alle regioni, soprattutto per quanto riguarda il governo dei propri territori.

Il nuovo Senato toglierà ancor più potere alle aree periferiche del Paese – com’è stato persuasivamente argomentato da tanti costituzionalisti di rango – non solo perché non tutti i territori saranno parimenti rappresentati.

Ma anche per una ragione più grave e  per certi versi drammatica.

Ma si ha idea delle lotte che esploderanno all’interno dei Consigli regionali per accaparrarsi il posto di consigliere-senatore?

Quanti mesi sottrarranno al lavoro dei nostri governi regionali?

Quanta paralisi operativa si creerà?

C’è nel ragionamento di Cacciari, ma soprattutto di tanti altri commentatori, una impropria sopravvalutazione del fattore efficienza della macchina amministrativa.

Fattore certo importante, ma spesso secondario.

Attribuire al bicameralismo perfetto l’inefficienza dei nostri governi è una lettura semplicemente superficiale della storia politica italiana.

Negli anni ’70 vigeva il bicameralismo, eppure in quel decennio sono state realizzate le riforme più importanti per la modernizzazione dell’Italia.

E il ragionamento vale anche in periferia.

Davvero si crede che le nostre regioni, soprattutto quelle meridionali, non siano capaci di utilizzare a pieno i fondi strutturali europei per pura inefficienza?

In realtà sono lentissime nel decidere  a causa delle lotte intestine trai i vari gruppi che si contendono le risorse  e sono in perenne litigio sulle forme, i modi, i luoghi del loro utilizzo.

Il guasto è nel corpo del ceto politico  e lo si cerca nelle istituzioni.

Ancora più paradossale è però il si di Cacciaci al referendum accompagnato da un giudizio severo sulla riforma elettorale dell’Italicum.

Ma dov’è, innanzi tutto, il senso tattico di questa posizione?

Già Renzi ha fatto sapere, con la consueta mitezza di modi, che «l’Italicum non si tocca».

Figuriamoci quanto sarà disponibile a modificarlo nel caso dovesse vincere il referendum d’autunno.

Ma questa distinzione tra legge elettorale e  riforma del Senato, che è di tanti attori politici e commentatori, tradisce una grave incomprensione storica di quel che è avvenuto nei paesi capitalistici.

E a Cacciari, a tal proposito, dovrei ricordare, allorché  usa il termine sinistra, che negli ultimi 15 anni, un arcipelago di intellettuali  si è messo a studiare il capitalismo attuale e riesce a leggere  in profondità  e  con capacità di anticipazione i fenomeni sociali e politici del nostro tempo.

Quella capacità che  la sinistra storica sembra avere ormai definitivamente perduto. 

Il dispositivo autoritario contenuto nell’Italicum non è una cattiveria di Renzi.

È un passaggio obbligato, nel contesto del capitalismo globalizzato, di una strategia che oggi appare ineludibile per il ceto politico.

Non lo ripeterò mai abbastanza: ceto politico vuol dire una classe professionale, con sempre meno legami con le masse popolari, che vive di politica, cioè di mediazione tra i poteri industrial-finanziari e la società.

Tale ceto politico, sia per la sempre minore autonomia d’azione dello Stato-nazione, sia perché necessitato a ridurre sempre di più diritti e welfare non riesce  a governare con il consenso dei cittadini. 

C’è bisogno di prove? 

Osservate le statistiche  della diserzione delle urne da parte dei cittadini, in Italia come altrove.

Se manca il consenso, per governare occorre  rafforzare il potere, emarginare il dissenso.

Ora non c’è bisogno di temere l’arrivo di un qualche Videla o Pinochet, per allarmarsi.

L’Italicum è il completamento di un disegno già in atto, non lo si vede già?

Il governo Renzi ha abolito l’articolo 18 e messo i lavoratori in condizioni di piena disponibilità del padronato, combatte apertamente  il sindacato, ha elevato a simbolo della sua nuova narrazione un capitalista internazionale come Marchionne, ha insediato la figura del preside-capo nelle scuole, controlla  e presidia quotidianamente le TV pubbliche.

Forse che non ha dato sufficienti prove di spregiudicatezza e irresponsabilità nel manomettere la Costituzione e spaccare ora il Paese?

Che cosa devono desiderare di più e di meglio i gruppi capitalistici nazionali e transnazionali?

Giusto un governo dominato da un capo che comanda un Parlamento di nominati.

Eccolo in arrivo…

L’Italia ha già conosciuto su scala ridotta lo squallido servilismo, il conformismo asfissiante generato in tutti gli ambiti della società  dal potere assunto, a metà anni ’80, da Bettino Craxi e dal suo PSI.

Oggi incombe  su di noi un ben più grave pericolo, perché allora, benché mal messi, esistevano ancora i partiti di massa.

Oggi non più.

Il pericolo che ci minaccia  è enorme, anche senza evocare stadi affollati di prigionieri politici.

Allarmante è che un intellettuale della statura di Cacciari non l’abbia ancora capito. 

 

(Articolo di Piero Bevilacqua, pubblicato con questo titolo il 31 maggio 2016 su “Eddyburg”)

 

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