Non riduciamo il sapere a un utile d’impresa

 

La cultura in scatola

Perché l’università italiana, «un luogo di elaborazione e di trasmissione della conoscenza diventa uno straordinario concentrato di stupidità?».

Sono queste le domande a cui risponde Universitaly.

La cultura in scatola (Laterza 2016), meravigliosamente scritto da Federico Bertoni, professore di Teoria della Letteratura a Bologna.

Carlo Levi ha scritto che «se gli occhi guardano con amore (se amore guarda), essi vedono»: gli occhi di Bertoni sono pieni d’amore per l’università, ed è probabilmente per questo che la sua analisi è così lucida.

Il governo di Matteo Renzi ha annunciato la prossima uscita dell’università dal pubblico impiego, e dunque la sua privatizzazione.

«Sarebbe solo la sanzione giuridica – osserva Bertoni – di qualcosa che di fatto è già successo»: «Le università non condividono il sapere con i cittadini ma propongono un’ offerta formativa ai clienti», gli studenti accumulano non conoscenze ma «competenze acquisite in una carriera», il loro apprendimento «si misura in crediti e debiti», le pubblicazioni scientifiche sono «prodotti della ricerca», e quando si annuncia che qualche ricercatore è finalmente uscito dallo schiavismo del precariato si dice che si è «investito sul capitale umano».

Insomma, «l’equazione subdola tra responsabilità (accountability) e contabilità (accounting) ha trasformato l’università in una customer oriented corporation» fondata su criteri e valori come «l’immagine, la qualità (nel senso di quality assurance), la competizione, la soddisfazione del cliente, gli indici di produttività».

L’analisi, documentatissima e implacabile, di Bertoni solleva una domanda di fondo: a cosa serve una università tanto schiacciata sulla monodimensione mercatistica dell’esistente da non riuscire a immaginare e a costruire niente di nuovo?

Rinnegando la sua stessa ragione di essere – che è la produzione di senso critico – questa università sembra esistere solo per confermare il motto di Margaret Thatcher: «There Is No Alternative».

Come se ne esce?

Riscoprendo, suggerisce Bertoni, i fondamentali della professione intellettuale.

I professori non devono avere paura: possono prendere la parola, rifiutarsi di obbedire, non abituarsi alla degenerazione, rallentare il ritmo aziendalistico, smascherare le finzioni, giocare al rialzo nella qualità dell’insegnamento, insegnare il dissenso.

Che è come dire che i professori devono fare il loro dovere: anche se non è il dovere a cui pensano i rettori e i ministri.

Un manuale di volo notturno per gufi, ma anche una lettura strategica per capire (e provare a cambiare) il futuro del Paese.

 

(Articolo di Tomaso Montanari, pubblicato con questo titolo il 29 maggio 2016 su “la Repubblica”)

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