Dolce&Gabbana, gli errori del sindaco

 

Tomaso Montanari

Tomaso Montanari

TRA i due modi che il Calvino delle Città invisibili propone per non soffrire in mezzo all’«inferno dei viventi» il più difficile è quello di «cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno: e farlo durare e dargli spazio».

È un esercizio cognitivo e morale fondamentale: un esercizio cui è impossibile sfuggire quando si scruta ciò che succede a Napoli.

Ora la domanda è: il grande evento di Dolce e Gabbana come va letto?

Come qualcosa che non è inferno (sembra l’opinione prevalente, anche se spesso la motivazione che la sorregge è un disarmato: «meglio di niente!»), o come un pezzo del solito, immutabile, eterno inferno?

Sono convinto che la risposta giusta sia la seconda: ciò che abbiamo vissuto in questi giorni non è la promessa di qualcosa di nuovo, è l’ennesima manifestazione dell’abdicazione perpetua di questa città.

Cosa c’è, infatti, di nuovo nella circostanza per cui un signore si prende Napoli, la chiude, la nega ai cittadini stessi e ci costruisce un apparato effimero?

L’unica novità, rispetto ai riti di antico regime, non è una bella novità: ora la festa non è neanche a sollazzo del popolo, ma a totale beneficio del marketing del moderno signore e padrone.

La gravità di ciò che è successo mi pare evidente soprattutto sul piano simbolico, e dunque su quello educativo: perché si è affermato con forza che la città non è dei cittadini.

Il colmo lo si è raggiunto con la decisione gravissima di chiudere il Dipartimento di Scienze sociali della Federico II: una scelta che ben chiarisce la gerarchia simbolica dei poteri.

Non c’è dubbio che gli studenti abbiano così ricevuto la più eloquente lezione di sociologia applicata della loro carriera: ma credo che i vertici del mio ateneo dovrebbero attentamente riflettere sul messaggio che si è, di fatto, mandato.

Nel complesso, questo evento ha ridotto ancora una volta i cittadini a plebe, legittimando così ogni disprezzo: perché un giovane diseredato di una qualunque periferia dovrebbe astenersi dal coprire di vernice i monumenti che compongono questo set privato?

Le parole, e la loro carica simbolica, sono importanti: e cosa può fare un evento “esclusivo”, se non escludere?

Escludere ancora un po’, in una città che ha, invece, bisogno di inclusione come dell’acqua.

Per quattro giorni come ai tempi di piazza Plebiscito regalata alla Nutella [vedi http://www.vasonlus.it/?p=4577], il sindaco de Magistris continua a confondere cittadini e spettatori, e – alla faccia della retorica dei beni comuni – si presta a far da comparsa in una kermesse che la Valente o Lettieri avrebbero applaudito nello stesso, identico modo.

Già, perché il vero problema è l’omologazione culturale del pensiero unico: quella per cui, negli stessi giorni, Diego Della Valle chiudeva per una festa privata due ordini del Colosseo (quando un’assemblea sindacale, legale e annunciata, l’aveva fatto per sole due ore, Dario Franceschini e Matteo Renzi avevano scatenato un inferno mediatico) e Fendi si prendeva la Fontana di Trevi per una sfilata di moda sull’acqua, letteralmente calpestando il monumento.

Di qualche settimana fa è, poi, la cena esclusiva organizzata da un negozio di moda su un ponte galleggiante sull’Arno a Firenze, riedizione iperbolica e ultraconsumistica della madre di tutte le privatizzazioni dello spazio pubblico: quella della cena della Ferrari che nel 2013 chiuse Ponte Vecchio per una notte, per decisione dell’allora sindaco Renzi.

Conosco l’obiezione a questa lettura.

Napoli – si dice – ne avrebbe guadagnato «in immagine».

A questo rispondo innanzitutto che la prima immagine di Napoli ad essere importante è quella che viene trasmessa ai suoi stessi cittadini: e il messaggio per cui la città è di chi se la prende è un messaggio devastante.

Ma anche se si pensa all’immagine di Napoli di fronte al mondo, credo che il ragionamento sia profondamente sbagliato.

Il risultato, si dice, è aver fatto passare il messaggio che «Napoli non è solo Gomorra».

Parole infelici: intanto perché tradiscono un inconfessabile fastidio verso chi denuncia, racconta, rappresenta Gomorra.

E poi perché trascurano il risultato finale: e cioè che l’immagine di Napoli che ne esce è per metà Gomorra e per metà Luna Park.

Tutto tranne che una città.

E anzi un ircocervo mostruoso, che finisce con l’abbracciare, di fatto, la visione di un Oscar Farinetti: per cui l’unica prospettiva del Mezzogiorno è diventare «una grande Sharm el Sheik».

Una predizione di qualche anno fa, nel frattempo divenuta sinistramente calzante: visto che la località egiziana è ormai ridotta a un’oasi per ricchi protetta da un esercito in armi.

Dunque, se davvero vogliamo «cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare e dargli spazio» non è all’effimero circo degli eventi che dobbiamo guardare, ma a quanto questa città è capace di fare davvero per se stessa.

Se – per non fare che un esempio – il lavoro straordinario della Fondazione Foqus ai Quartieri Spagnoli venisse raccontato con un decimo dell’enfasi e dello spazio riservati alle feste di Dolce e Gabbana non faremmo tutti un miglior servizio al corpo (e all’immagine) di Napoli?

 

(Articolo di Tomaso Montanari, pubblicato con questo titolo il 14 luglio 2016 su “la Repubblica”)

 

N.B. – Per il caso in questione, come per tutti i casi analoghi di “invasione” di parti storiche della città per usi commerciali, basterebbe che si applicasse quanto prescrive l’art. 52 del “Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio”, emanato con D. Lgs. n. 42 del 22 febbraio 2004: se ne riporta di seguito il testo.

Articolo 52 

 

Esercizio del commercio in aree di valore culturale e nei locali storici tradizionali (1) 

1. Con le deliberazioni previste dalla normativa in materia di riforma della disciplina relativa al settore del commercio, i comuni, sentito il soprintendente, individuano le aree pubbliche aventi valore archeologico, storico, artistico e paesaggistico nelle quali vietare o sottoporre a condizioni particolari l’esercizio del commercio. (2) (3)

1-bis. Fermo restando quanto previsto dall’articolo 7-bis, i comuni, sentito il soprintendente, individuano altresì i locali, a chiunque appartenenti, nei quali si svolgono attività di artigianato tradizionale e altre attività commerciali tradizionali, riconosciute quali espressione dell’identità culturale collettiva ai sensi delle convenzioni UNESCO di cui al medesimo articolo 7-bis, al fine di assicurarne apposite forme di promozione e salvaguardia, nel rispetto della libertà di iniziativa economica di cui all’articolo 41 della Costituzione. (4)

1-ter.  Al fine di assicurare il decoro dei complessi monumentali e degli altri immobili del demanio culturale interessati da flussi turistici particolarmente rilevanti, nonché delle aree a essi contermini, i competenti uffici territoriali del Ministero, d’intesa con la regione e i Comuni, adottano apposite determinazioni volte a vietare gli usi da ritenere non compatibili con le specifiche esigenze di tutela e di valorizzazione, comprese le forme di uso pubblico non soggette a concessione di uso individuale, quali le attività ambulanti senza posteggio, nonché, ove se ne riscontri la necessità, l’uso individuale delle aree pubbliche di pregio a seguito del rilascio di concessioni di posteggio o di occupazione di suolo pubblico.

In particolare, i competenti uffici territoriali del Ministero, la regione e i Comuni avviano, d’intesa, procedimenti di riesame, ai sensi dell’articolo 21-quinquies della legge 7 agosto 1990, n. 241, delle autorizzazioni e delle concessioni di suolo pubblico, anche a rotazione, che risultino non più compatibili con le esigenze di cui al presente comma, anche in deroga a eventuali disposizioni regionali adottate in base all’articolo 28, commi 12, 13 e 14, del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 114, e successive modificazioni, nonché in deroga ai criteri per il rilascio e il rinnovo della concessione dei posteggi per l’esercizio del commercio su aree pubbliche e alle disposizioni transitorie stabilite nell’intesa in sede di Conferenza unificata, ai sensi dell’articolo 8, comma 6, della legge 5 giugno 2003, n. 131, prevista dall’articolo 70, comma 5, del decreto legislativo 26 marzo 2010, n. 59 recante attuazione della direttiva 2006/123/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 12 dicembre 2006 relativa ai servizi nel mercato interno. In caso di revoca del titolo, ove non risulti possibile il trasferimento dell’attività commerciale in una collocazione alternativa potenzialmente equivalente, al titolare è corrisposto da parte dell’amministrazione procedente l’indennizzo di cui all’articolo 21-quinquies, comma 1, terzo periodo, della legge 7 agosto 1990, n. 241, nel limite massimo della media dei ricavi annui dichiarati negli ultimi cinque anni di attività, aumentabile del 50 per cento in caso di comprovati investimenti effettuati nello stesso periodo per adeguarsi alle nuove prescrizioni in materia emanate dagli enti locali.  (5)

 

(1) Rubrica così sostituita dall’art. 2-bis, comma 1, lett. b), D.L. 8 agosto 2013, n. 91, convertito, con modificazioni, dalla L. 7 ottobre 2013, n. 112. Peraltro, la Corte costituzionale, con sentenza 9 giugno-9 luglio 2015, n. 140 (Gazz. Uff. 15 luglio 2015, n. 28 – Prima serie speciale), ha dichiarato, tra l’altro, l’illegittimità costituzionale del citato art. 2-bis, nella parte in cui non prevede l’intesa fra Stato e Regioni.

(2) Comma così modificato dall’art. 2, comma 1, lett. cc), D.Lgs. 26 marzo 2008, n. 62.

(3) I provvedimenti previsti dal presente comma sono stati emanati con Direttiva 9 novembre 2007 e Direttiva 10 ottobre 2012.

(4) Comma aggiunto dall’art. 2-bis, comma 1, lett. a), D.L. 8 agosto 2013, n. 91, convertito, con modificazioni, dalla L. 7 ottobre 2013, n. 112. Peraltro, la Corte costituzionale, con sentenza 9 giugno-9 luglio 2015, n. 140 (Gazz. Uff. 15 luglio 2015, n. 28 – Prima serie speciale), ha dichiarato, tra l’altro, l’illegittimità costituzionale del citato art. 2-bis, nella parte in cui non prevede l’intesa fra Stato e Regioni.

(5) Comma aggiunto, come comma 1-bis, dall’art. 4-bis, comma 1, D.L. 8 agosto 2013, n. 91, convertito, con modificazioni, dalla L. 7 ottobre 2013, n. 112, e, successivamente, rinumerato e modificato dall’art. 4, comma 1, D.L. 31 maggio 2014, n. 83, convertito, con modificazioni, dalla L. 29 luglio 2014, n. 106. Peraltro, la Corte costituzionale, con sentenza 9 giugno-9 luglio 2015, n. 140 (Gazz. Uff. 15 luglio 2015, n. 28 – Prima serie speciale), ha dichiarato, tra l’altro, l’illegittimità costituzionale del citato art 4, comma 1, nella parte in cui non prevede alcuno strumento idoneo a garantire una leale collaborazione fra Stato e Regioni, e del citato art. 4-bis, nella parte in cui non prevede l’intesa fra Stato e Regioni. Da ultimo, il presente comma è stato così modificato dall’art. 16, comma 1-ter, lett. a) e b), D.L. 19 giugno 2015, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla L. 6 agosto 2015, n. 125.

 

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