Ritorno a Venezia la sfida dei giovani: “Così salveremo la città che muore”

 

ritorno-a-venezia

«Ti ga fenoci?».

Il sole illumina gli orti della “Maravegia” a Sant’Erasmo, flottanti sulla laguna ancora calda e silenziosa.

Lontano le Dolomiti sono già azzurre di neve.

Davide Tozzato, 30 anni e laurea in Economia, coltiva verdure in modo naturale.

Consegna sul campo, oppure online.

«Mi piace questa vita — dice — ma qui il problema è che tocca ai giovani dare il buon esempio agli adulti».

A fine mese, per ora, non ci arriva.

In compenso quello che fa è buono.

A Venezia questa, oggi, è una rivoluzione.

I ragazzi non accettano di assistere alla morte della città che la retorica globale assicura di amare di più al mondo.

Dove l’acqua finisce, la scelta è non vedere: sull’ex Serenissima si combatte la guerra cruciale che oppone la vita delle persone semplici agli interessi dei capitali anonimi.

Si stenta a crederci ma è la verità: uomini contro soldi a Venezia, i veneziani contro i turisti.

E la resistenza, segnale di un’evoluzione più vasta e più profonda, parte dai ragazzi, decimati, espulsi e ignorati.

Non può che essere così: la città è stata venduta dai suoi abitanti, i vecchi assistono alla tragedia delle colpe dei padri scontate dai figli.

La sfida impossibile di chi è nato qui e ha meno di trent’anni è semplice: restare o tornare a Venezia e sulle sue isole per arginare il vuoto, offerta a termine per una massa di estranei.

«L’Italia e la comunità internazionale — dice Silvia Scaramuzza, maestra d’ascia alla Giudecca — non capiscono che il caso-Venezia è un’emergenza che tocca tutti.  

Prima la speculazione si limitava a distruggere la bellezza, era un dramma estetico.  

Ora esclude la vita, il cancro è antropologico.  

Venezia è prossima a ridursi a un deserto occupato da 30 milioni di visitatori all’anno, un non-luogo privo di comunità.  

Il passo in più è che anticipiamo il destino del Paese».

La novità è che i giovani non si rassegnano: denunciano, si ribellano e soprattutto fanno.

Il 10 settembre lo slogan di Generazione 90 era “Ocio ae gambe che go el careo”: non tutti sono maschere, qualcuno ancora deve fare la spesa per mangiare.

Il 2 luglio “Ditelo coi nizioi” del Gruppo 25 Aprile ha coperto centinaia di case con lenzuola che dicevano: “Il mio futuro è qui, non me ne vado”.

La prossima protesta di Venessia. com sarà il 12 novembre: “ Venexodus”, o “Tolgo il disturbo”, tutti con la valigia in mano sotto il municipio.

Un doge in gondola abbandonerà Venezia per sempre, tirando un trolley.

Sotto accusa il sindaco Luigi Brugnaro, il primo di destra nella storia cittadina, ma pure i predecessori del centrosinistra.

Lo shock però l’ha dato Brugnaro: «Il futuro dei veneziani — la sentenza — è a Mestre o sulla terraferma».

Come dire che il centro storico è perduto, una città-selfie in un’Italia stile autoscatto, un palcoscenico sull’acqua.

Altro che patrimonio culturale: al tramonto solo uno sfondo.

«Fuori nessuno ha reagito — dice Piero Dri, 33 anni, laurea in Astronomia ma remèr a Cannaregio — sulle isole abbiamo capito che la situazione è sfuggita di mano.  

Chi amministra una comunità non può invitarla ad andarsene per fare posto a chi spende di più.  

La logica del libero mercato, applicata alle persone, elimina la vita: oggi tocca a Venezia, domani al resto d’Italia».

I numeri contano.

In laguna, nel 1946, vivevano in 190mila.

I due conta-persone pagati dai residenti ora sono a quota 54.970.

In settant’anni la popolazione è ridotta a un quarto, mai la peste ha decimato di più.

I giovani non sono più di 6 mila: 3 al giorno vanno via, 2 gli sfratti quotidiani.

In un giorno qualsiasi di fine ottobre i turisti registrati sono 57.179: i nativi, età media 47 anni, sono sempre minoranza.

«Case inarrivabili — dice Marina Colussi, 24 anni, pasticcera a San Barnaba — scelte di lavoro zero, iniziative per i giovani ancora meno.  

Finiti gli studi è l’ecatombe: o fai la comparsa per i turisti o devi andare via, qui o bevi nei campielli o cammini per le calli.  

Oppure ti rimbocchi le maniche e lotti per cambiare tutto ritrovando un’anima».

È la strada dei ragazzi della nuova resistenza civile veneziana.

Laureati o diplomati, sono sarte e tagliaoro, pescivendoli e cartai, gondolieri e vetrai, merlettaie e contadini, ma pure programmisti di computer e web designer, urbanisti e restauratori, volontari e istruttori di voga alla veneta.

Non emigrare è un sacrificio: vivono in famiglia per risparmiare l’affitto, niente matrimonio e niente famiglia, superfluo abolito.

Eleonora Menegazzo ha 33 anni ed è figlia della storica dinastia Berta, battiloro nella casa abitata da Tiziano, dietro Fondamenta Nuove.

Pur di non trasferire la bottega in terraferma, ogni giorno sta tre ore su corriere e vaporetti.

«Devo dormire a Iesolo — dice — e avere pazienza.  

Ho studiato Economia del turismo, ma agli alberghi ho preferito un mestiere secolare che si fa con le mani.  

La pazienza e la bellezza camminano insieme, come l’onestà e la giustizia: la missione della nostra generazione è spingere Venezia a riconoscere i valori essenziali».

Tra questi, per chi vuole andare veloce, c’è anche la lentezza.

Federico Mantovan, 32 anni, laurea a Ca’ Foscari in Beni culturali, consegna il cibo che produce in barca a remi.

All’alba parte da piazzale Roma e voga per i canali, vendendo e parlando con la gente sulle rive.

«Nessuna nostalgia — dice — contano la felicità e la soddisfazione di fare bene un lavoro che funziona, in modo giusto e in un luogo unico.  

Il mio modo di ribellarmi alla condanna a morte dei ragazzi veneziani è ricominciare a fare, accontentandomi con entusiasmo».

Questa è una città fondamentale che la cronaca evita di documentare.

Parliamo degli scandali e delle grandi navi che violano il bacino di San Marco, dei vecchi che cacciano i giovani per affittare agli stranieri e dei turisti che si tuffano sugli scafi-taxi dal ponte di Rialto, delle tangenti per il Mose e della crescente voglia di indipendenza, dei cinesi che rastrellano palazzi e chioschi di souvenir.

Abitanti contro visitatori e comitive contro residenti, due eserciti accomunati solo dall’odio reciproco e dall’incubo di essere fregati.

Oltre alla cupidigia, all’egoismo, alla maleducazione e alla criminalità, rinasce invece oggi un universo veneziano che rifiuta modelli finiti, preferendo la speranza di una modesta vita bella alla disperazione di un’esagerata morte tranquilla.

«Il futuro è proprio qui — dice Fabio Carrera, docente di Economia in città e negli Usa, fondatore del pensatoio hi-tech per studenti Venice Project Center — nello scatto mentale che induce sempre più ragazzi a rifiutare privilegi fatali e a scegliere l’energia della normalità.  

Grazie alla giovinezza la realtà sta già cambiando: la solidarietà della “ cassa peota” può abbattere il muro di affitti e mutui, il made in Venice supera la monocultura turistica attraverso la ricerca e la tecnologia, l’elettronica e il web risolvono l’emergenza degli accessi di massa.  

I giovani veneziani, con la testa o con le mani, stanno cambiando il modo di fare soldi, rendendolo compatibile con la loro sopravvivenza.  

Solo i politici e i vecchi speculatori non lo vedono, o sperano nel fallimento di questa travolgente rivoluzione». La stessa “idea del turista” a Venezia non è più quella promossa da tour operator e media.

Lo schema logoro impone il patto ineludibile distruzione-ricchezza, il sacrificio della città, o del Paese, in cambio dell’agio finanziario.

Tra chi conta meno di trent’anni prevale invece la fiducia nel coetaneo che, nel resto del pianeta, si mette in viaggio per la prima volta, incarnando il visitatore del futuro.

«Se parli con un turista di vent’anni — dice Giulia Ribaudo, 26 anni, laurea in Filosofia e coordinatrice dell’associazione Closer — nemmeno il concetto di rinunciare è più tabù.  

Chiudere Venezia è punitivo, chiedere che non tutti visitino sempre tutto, che non ogni tour italiano offra sempre anche l’ebbrezza di uno scatto davanti al Ponte dei Sospiri, è gratificante.  

I giovani accettano di rinunciare a un’emozione per proteggere Venezia e salvare i veneziani, di passare dal concetto di parco- divertimenti a quello di oasi da tutelare per il bene collettivo». La prossima campagna dei ragazzi che vivono sull’acqua, offerta alle agenzie internazionali di promozione turistica, avrà come slogan “Amo Venezia: oggi non voglio vederla, domani sì”.

È una dichiarazione d’amore, come quella di Michele Rossetto, 29 anni, vetraio a Murano.

Tutto chiude, attorno a lui: nelle fabbriche erano 15mila, sull’isola ne restano mille.

Ogni giorno nella piccola fornace di famiglia, per vivere e per restare, fonde trecento perle a lume, fiamma a mille gradi, 40 centesimi a pezzo.

Sui vaporetti i marinai faticano meno, trovano una morosa, lo stipendio è certo.

Lui si cuoce, è solo, d’inverno è povero.

Però dice di essere orgoglioso, come Simone dei Rossi, 21 anni, sveglia fissa sulle 3.45 per portare sogliole e vongole al mercato.

«Svolgo un servizio per la mia comunità — dice — riesco a mangiare senza fare danni.  

La bellezza c’è solo se non ci pensi».

Vuole dire che se diventa un espediente da sfruttare, sparisce.

È la lezione dei giovani partigiani che resistono sulle isole incantate “al di là del ponte”, che non cedono e che non vanno via, oppure che ritornano.

Venezia la stanno salvando loro, poche parole, Venezia sono loro.

Non si può dimenticarli, vanno aiutati, molto e subito: sarà una felicità.

 

(Articolo di Gianpaolo Visetti, pubblicato con questo titolo il 7 novembre 2016 sul sito online de “la Repubblica”)

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Vas