La Pontificia Accademia delle Scienze e l’estinzione biologica

 

È iniziato oggi a Roma il Workshop “Come salvare l’ambiente naturale da cui dipendiamo” della Pontificia Accademia delle Scienze  e che durerà fino al primo marzo. Vi proponiamo il documento in discussione che chiude definitivamente con qualsiasi ipotesi creazionista e conferma il forte impegno della Chiesa Cattolica per la salvaguardia dell’ambiente.

Sul nostro pianeta, che ha 4,45 miliardi di anni, la vita risale forse addirittura a 3,7 miliardi di anni, la fotosintesi e la pluricellularità si sono prodotte indipendentemente decine di volte a partire da 3 miliardi di anni fa, mentre le piante, gli animali e i funghi sono arrivati sulla terraferma come minimo durante l’Ordoviciano, forse 480 milioni di anni fa.

Le foreste sono apparse circa 370 milioni di anni fa e le origini di gruppi moderni come i mammiferi, gli uccelli, i rettili e le piante terrestri risalgono a periodi successivi. I dati geologici mostrano che, in passato, ci sono state cinque grandi estinzioni, la prima delle quali 542 milioni di anni fa, durante le quali si sarebbe estinto il 99% delle specie mai esistite (forse cinque miliardi di esse).

L’ultima grande estinzione risale a circa 66 milioni di anni fa, alla fine del Cretaceo, e da allora si è registrato un incremento costante sia nel numero di specie sulla terra che nella complessità delle loro comunità.

Nel corso degli ultimi 66 milioni di anni il numero di specie sulla terra ha raggiunto circa 10-14 milioni di organismi eucariotici diversi (quelli con le cellule complesse) e un numero sconosciuto ma importante di organismi procariotici (archea batteri).

Secondo i resti fossili, i nostri parenti più stretti risalgono inizialmente a 2,7 milioni di anni fa, e come tutti i nostri parenti più lontani, hanno origini africane. 

Homo erectus, la specie a noi più vicina, è migrata dall’Africa attraverso il Medio Oriente a partire da due milioni di anni fa circa, ed è stata poi seguita da Neanderthal, Denisoviani, e infine, dalla nostra specie, Homo sapiens, circa 60.000 anni fa.

Partendo dall’Eurasia, 12.000 anni fa i nostri antenati avevano già colonizzato tutti i continenti.

Circa 30.000 anni fa avevano già conquistato e ucciso tutte le altre specie umane che avevano raggiunto l’emisfero nord prima di loro.

Dopo aver raggiunto l’Eurasia, gli esseri umani vissero da cacciatori-raccoglitori per decine di migliaia di anni.

In quel periodo certamente iniziarono a creare oggetti artistici, strumenti musicali, armi e simili, ma poiché erano in continuo movimento alla ricerca di cibo, con i bambini in braccio, non ebbero la possibilità di sviluppare quella che oggi chiamiamo civiltà.

Probabilmente già prima esistevano piccole coltivazioni sporadiche, ma i nostri antenati hanno iniziato a coltivare in maniera estensiva circa 12.000 anni fa.

A partire da 10.000 anni fa coltivazioni e animali addomesticati diventarono la principale fonte di cibo conservabile che permetteva di superare periodi di siccità, inverni e altri periodi sfavorevoli.

Il numero di persone che poteva vivere insieme in un villaggio, in un paese o in una città aumentò, consentendo così in questi centri uno sviluppo più articolato di tutti gli aspetti della civiltà.

Quando, 10.000 anni fa, le coltivazioni divennero un elemento importante per la sopravvivenza umana, l’intera popolazione mondiale ammontava probabilmente a circa un milione di persone, di cui 100.000 circa in Europa.

La scrittura fu sviluppata circa 5.000 anni fa, quando iniziarono a emergere vere e proprie civiltà in diverse parti del mondo.

Le popolazioni umane iniziarono a crescere sempre più rapidamente, mettendo a dura prova molti ecosistemi a causa della coltivazione e la pastura.

Secondo le stime, ai tempi di Cristo la popolazione mondiale era di 300 milioni, contro i 7,3 miliardi attuali.

Oggigiorno, l’11% circa delle superfici prive di ghiaccio sono state destinate alla coltivazione e un ulteriore 20%, che un tempo erano praterie, sono state trasformate in pascoli, la maggior parte dei quali insostenibili.

È ovvio che molti degli organismi che esistevano 10.000 anni fa si siano già estinti e che abbiamo a che fare con un gruppo di organismi ridotto rispetto a quello che esisteva quando l’agricoltura fu adottata per la prima volta dai nostri antenati.

L’esatta percentuale di queste perdite non è nota, ma sulle isole abbiamo probabilmente perso la maggioranza degli organismi e una grande parte sul continente.

La nostra civiltà e la popolazione mondiale sono cresciute nel periodo caratterizzato da un clima relativamente stabile creatosi dopo l’ultima espansione delle masse di ghiaccio continentale, o calotte, circa 26.500 anni fa, ma oggi stiamo danneggiando gravemente le condizioni che hanno visto la popolazione mondiale passare da 1 milione a 7,3 miliardi di persone con un aumento netto di 250.000 persone in più al giorno (www.prb.org).

La Global Footprint Network (www.footprintnetwork.org), che misura accuratamente il consumo di tutti gli aspetti della produttività sostenibile del mondo, calcola che se nel 1970 usavamo circa il 70% della capacità sostenibile del pianeta, oggi ne utilizziamo circa il 156%.

Tuttavia, ci sono 800 milioni di persone che soffrono di malnutrizione cronica e 100 milioni che soffrono la fame.

Come si è venuta a creare e perpetrare questa disparità nel mondo contemporaneo e tra le generazioni attuali e future?

I problemi non scomparirebbero se, per soddisfare i nostri bisogni, la Terra fosse più grande del 56%, però almeno potremmo evitare di distruggerne le risorse produttive col passare degli anni.

Finché le nazioni che stanno notevolmente meglio di altre, e i ricchi del Pianeta, che stanno meglio a prescindere da dove vivano, continuano a prosciugare la produttività delle nazioni povere, sotto forma di energia, legno e combustibile, non vi sarà alcuna possibilità di migliorare la situazione senza adottare in maniera diffusa il concetto di giustizia sociale, sia per una questione di moralità, sia per una questione di sopravvivenza.

In questi ultimi anni le Pontificie Accademie hanno tenuto diversi convegni sui temi della giustizia sociale, della disuguaglianza mondiale e sulla povertà estrema nel mondo contemporaneo.

Una questione che non abbiamo ancora affrontato è se il sistema Terra sia in grado di sostenere le esigenze degli esseri umani, né come disuguaglianza e povertà incidano su tale capacità.

La sopravvivenza del mondo naturale e, in ultima analisi, la nostra, dipendono dall’adozione di principi di giustizia sociale e sostenibilità.

La sostenibilità richiede una particolare attenzione alla biodiversità, che fornisce i servizi che permettono all’umanità di vivere e prosperare.

Come ha recentemente dichiarato il Presidente della PAS, il Premio Nobel Werner Arber, il problema non è tanto il futuro dei nostri figli e dei nostri nipoti, ma se il mondo sarà in grado di operare sostenibilmente durante il resto della nostra vita.

Tra i cambiamenti dannosi per la sopravvivenza della biodiversità vi sono il diboscamento dei terreni per l’agricoltura e per lo sviluppo urbano; l’introduzione di specie non autoctone, tra le quali erbe infestanti, parassiti e agenti patogeni, che negli ultimi 500 anni è avvenuto in tutto il mondo a ritmi vertiginosi; la caccia e la raccolta insostenibili di animali e piante per il consumo diretto, come materiali da costruzione o per usi medicinali; e i cambiamenti climatici mondiale.

Secondo l’ultimo rapporto dell’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change), i cambiamenti climatici, che sono il tema dell’Enciclica Laudato Si’ di Papa Francesco (insieme alla biodiversità, a cui è dedicato in particolare il Capitolo 2), rischiano di distruggere il 20-40% di tutta la biodiversità sulla Terra entro la fine di questo secolo, senza contare l’influenza di altri fattori contribuenti, ma ovviamente interagendo con essi.

Il tessuto vivente del Pianeta, che siamo stati chiamati a proteggere nel secondo capitolo della Genesi, ci sta scivolando tra le dita senza nessuna particolare preoccupazione da parte nostra.

Cosa significa tutto ciò per la biodiversità, e cosa significa per noi la biodiversità?

In breve, tutto.

Tutto il nostro cibo proviene direttamente o indirettamente dalle piante vascolari, di cui ne esistono circa 425,000 specie.

Nei secoli, decine di migliaia di queste piante sono state coltivate per l’alimentazione almeno una volta: oggi, 103 di queste piante producono il 90% circa di tutto il cibo mondiale, mentre tre tipi di cereali, il mais, il riso e il frumento, producono il 60% circa del totale.

Conosciamo in maniera approfondita forse solo un quinto delle specie vegetali in tutto il mondo e la maggioranza di esse potrebbe scomparire in natura entro la fine di questo secolo appena iniziato.

Si può dire lo stesso degli altri gruppi di organismi da cui dipendiamo per molti dei nostri farmaci, per i servizi dell’ecosistema, per la depurazione atmosferica, per lo stoccaggio del carbonio e tutto ciò che rende possibile la nostra vita.

Come lo ha dichiarato l’eminente Professore E.O. Wilson dell’Università di Harvard, l’estinzione di una proporzione così importante delle specie vitali che ci sostengono sarà il peccato che i nostri discendenti faranno più fatica a perdonarci.

Che cosa possiamo fare a riguardo?

I nostri livelli di consumismo crescono più rapidamente della nostra popolazione e la Terra non può sostenerli.

Solo una rivoluzione morale, che riorganizzi le nostre priorità, potrebbe ristabilire le condizioni di cui abbiamo goduto in passato.

Nonostante gli economisti e altri scienziati sociali abbiano sviluppato un linguaggio quantitativo per affrontare i problemi ambientali, hanno perlopiù trascurato di fare la stessa cosa per quanto riguarda la perdita di biodiversità.

L’economia dei cambiamenti climatici è avanzata a tal punto che gli esperti sono d’accordo sui parametri etici quali il tasso sociale di sconto e il prezzo sociale del carbonio.

Gli economisti dello sviluppo hanno stimato quantitativamente la cifra di reddito da classificare come soglia della povertà e hanno creato metodi per misurare le disuguaglianze di reddito.

Per la biodiversità non esiste nulla di paragonabile.

In assenza di questo tipo di ragionamento socioeconomico che informa le decisioni collettive che, a loro volta, influenzano altre sfere del mondo sociale, gli sforzi diretti per preservare la biodiversità sono quanto di meglio abbiamo, almeno per ora.

Possiamo continuare a cercare di conservare le aree naturali, in particolare quelle con rilievo topografico, gli abitanti delle quali potrebbero avere qualche possibilità di fronte ai cambiamenti climatici continuativi; possiamo provare a garantire interazioni sostenibili tra la popolazione di alcune zone e la biodiversità ivi esistente; addomesticare gli organismi, o coltivarli o metterli nelle banche dei semi, per preservarne il maggior numero possibile, fintanto che esistano ancora. Per alcuni di essi potrebbe funzionare la crioconservazione.

Tutti questi metodi vanno migliorati e applicati sulla base di una conoscenza approfondita degli organismi, ma avranno successo a lungo termine solo quando saranno messe in atto le appropriate condizioni sociali e quando verranno trovate delle alternative all’aggressione destabilizzante che noi e i nostri antenati pratichiamo da decine di migliaia di anni.

Sarà solo ponendo il problema dell’estinzione biologica in un contesto sociale ben concepito che riusciremo a fare del nostro meglio.

Lo scopo di questo workshop dovrebbe essere proprio la ricerca delle possibilità di superare queste nostre capacità.

 

(Articolo pubblicato con questo titolo il 27 febbraio 2017 sul sito online “greenreport.it”)

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