Seduta del 27 marzo 2017 sulle linee generali della riforma della legge quadro sulle aree protette: l’intervento dell’On. Serena Pellegrino

 

Resoconto stenografico dell’Assemblea – Seduta n. 767 di lunedì 27 marzo 2017

SERENA PELLEGRINO. Grazie, Presidente.

Ringrazio chi mi ha preceduto che ha illustrato molto bene la propria posizione, anche perché dà contezza di come noi stiamo affrontando la riforma della legge n 394 sui parchi.

Vorrei veramente che non ci fosse demagogia da parte di nessuno e che non ci fosse, soprattutto, proselitismo e ricerca di proselitismo.

Sono passati quasi cento anni dall’istituzione dei primi parchi nazionali in Italia, erano il Parco nazionale d’Abruzzo e il Parco Nazionale del Gran Paradiso, ma il cammino della presenza diffusa di aree di protezione ambientale e della formazione di una seria coscienza ecologica nel nostro Paese è stato ed è ancora difficile e irto di ostacoli.

Per la sua posizione e per la sua storia bio-geologica l’Italia può contare su una varietà di habitat che non ha eguali in Europa, da quelli alpini d’alta quota, a quelli costieri e sommersi.

Un primato dovuto alla sua straordinaria posizione geografica; l’Italia presenta una sovrapposizione tra natura boreale e subtropicale, a cui si aggiungono altri processi, anche assai diversi, di natura ecologica, geografica, storica e culturale.

L’Italia è il Paese europeo con la maggior biodiversità per numero di specie e di sistemi ecologici.

Sono presenti oltre un terzo delle specie animali distribuite in Europa e quasi il 50 per cento della flora europea su una superficie di circa un trentesimo di quella del continente, direi un patrimonio unico ed eccezionale.

Ma non possiamo sottovalutare che negli ultimi anni questo incommensurabile patrimonio ha subito numerose perdite.

Le specie di piante a rischio, su un totale di circa 7.000, sono 1.011 a livello nazionale e 3179 a livello regionale, mentre tra i vertebrati, Presidente, ben 338 su 494 sono in pericolo di estinzione.

Ogni giorno dedichiamo ricerche su come assorbire la CO2 prodotta dal consumo di energie non rinnovabili, inventandoci tecniche a volte costose o anche fantasmagoriche.

Invece, sarebbe sufficiente proteggere la più grande risorsa naturale che possediamo, le risorse preziose, ovvero, le foreste.

Vi ricordo che parchi tutelano il 28 per cento della superficie forestale nazionale e grazie a questo polmone verde si riescono ad assorbire, annualmente, 145 milioni di tonnellate di CO2, rendendo l’aria che tutti noi respiriamo più pulita.

Le foreste più significative dei parchi nazionali sono di faggi e querce, piante che danno un valido contributo alla lotta contro l’effetto serra.

Non possiamo sottovalutare che le più importanti sorgenti italiane che alimentano i bacini acquiferi d’acqua dolce, risorsa primaria per la vita di ogni essere vivente, risiedono nei parchi.

I parchi nazionali accolgono e tutelano 1.712 centri storici, quelli che tutti chiamiamo, anche coloro che sono presenti nella nostra Aula, e che vogliamo tutelare con delle leggi speciali: i piccoli borghi, 270, tra castelli, rocche e fortificazioni, 189 aree archeologiche, 291 tra santuari, monasteri e chiese rurali, 73 ville storiche e ben 149 musei.

Numeri invidiati e ammirati in tutto il mondo.

I parchi italiani, Presidente, come abbiamo potuto vedere anche in questi mesi in cui due dei più importanti parchi nazionali sono stati colpiti dall’ultimo terribile terremoto, sono un vero e proprio scrigno di prodotti agricoli, tipici e tutelati, di beni artistici, architettonici e di artigianato tradizionale che alimentano la nostra economia.

Tutto questo costituisce un patrimonio che appartiene non solo a tutti i cittadini di questo Paese, ma anche all’intera umanità ed è il patrimonio ed un’eredità importante per le future generazioni, non è un nostro privilegio.

Nonostante siano nati per tutelare aree di estremo valore naturalistico e paesaggistico, nel tempo, i parchi hanno integrato e sviluppato una funzione più ampia e complessiva.

Oggi, le aree protette rappresentano il cuore delle strategie nazionali e internazionali di conservazione; fungono da serbatoi per molti servizi ambientali da cui tutti dipendiamo, da rifugi per le specie e i processi ecologici; forniscono gli spazi per l’evoluzione naturale, la gestione forestale sostenibile e un futuro miglioramento ecologico; sono fondamentali alla conservazione delle risorse naturali e culturali, alla difesa del paesaggio; hanno permesso di accrescere la cultura attraverso l’attività di educazione ambientale, l’informazione scientifica e la diffusione della cultura ecologica, la ricreazione e il turismo e offrono una stupenda opportunità per lo sviluppo rurale, la nostra storica risorsa, generando reddito e occupazione.

Forse, alcuni di tutto questo non se ne sono mai accorti.

La difesa della biodiversità non può essere intesa come assenza di attività economica, ma come risorsa per creare e ampliare le economie locali che seguono i principi dell’ecosostenibilità.

In molti casi, le nostre aree protette hanno saputo legare in maniera feconda la conservazione della natura, promuovendo il progresso sociale e culturale, coinvolgendo tutti coloro che intendono affrontare la sfida della modernità e invertire la rotta in territori altrimenti segnati da marginalità e spopolamento.

I parchi italiani hanno garantito occupazione, favorito l’indotto in settori strategici come il turismo, l’agricoltura, l’artigianato, valorizzato le buone pratiche di sostenibilità, sostenuto il biologico e le produzioni agricole di eccellenza, aiutato il commercio e i servizi, promosso la nascita di piccole imprese e cooperative locali, rappresentato un capitale di straordinario rilievo su cui puntare, sempre nel rispetto della natura, per creare lavoro qualificato e valorizzare i territori.

Purtroppo, per molti anni, il boom economico e l’adesione critica ad un certo modello di sviluppo, che faceva del consumo del suolo e del mancato rispetto degli equilibri ecologici un vantaggio competitivo, ha comportato una forte erosione della biodiversità e la distruzione irreversibile di luoghi e paesaggi unici e di straordinaria bellezza.

Oggi siamo ancora, a livello mondiale, il Paese con il maggior numero di beni culturali e con la più ricca biodiversità in Europa.

Per contro, però, Presidente e sottosegretario, siamo anche il Paese delle centinaia di siti da bonificare e di importanti aree industriali in crisi, che non danno più prospettive di futuro.

Il 30 per cento degli habitat naturali italiani è minacciato, in particolare, quelli umidi e costieri.

Secondo l’ultimo rapporto ISPRA sulla “direttiva habitat”, il 60 per cento degli habitat di interesse europeo presenti in Italia è in uno stato di conservazione inadeguato.

Per questo, per lungo tempo, l’Italia è stata il fanalino di coda dei Paesi industrializzati nella protezione duratura e nella salvaguardia del paesaggio ed è solo con gli anni Ottanta, con l’affermarsi dell’associazionismo in campo ambientale e dei movimenti politici ecologisti, che si riprende con più forza ed incisività il cammino della protezione ambientale del territorio.

Fu proprio grazie alla legge quadro delle aree naturali protette, la legge n. 394 del 1991, che in questi ultimi decenni sono stati istituiti numerosi parchi nazionali, regionali e riserve, sia terrestri che marine, e io, Presidente, all’epoca, ero una di quelle che sosteneva l’introduzione di questa legge quadro.

Oggi, possiamo finalmente definirci un Paese europeo per la qualità e la quantità di aree naturali protette.

Secondo il sesto e ultimo aggiornamento del Ministero dell’ambiente dell’elenco ufficiale delle aree protette redatto nel 2010, le aree protette in Italia sono 871, per un totale di circa 31.636 chilometri quadrati, pari al 10,5 per cento della superficie della Repubblica; 2.853.033,93 ettari in superficie a mare e 658,02 chilometri di coste, pari all’8,82 per cento dello sviluppo costiero italiano.

Numeri che ci riempiono di orgoglio: non sono numeri sterili, Presidente, sono dati che ci fanno capire quale enorme rispetto dobbiamo avere per queste risorse, perché ci permettono la vita.

Se a queste aree protette si aggiungono i 2.500 siti della Rete Natura 2000, si arriva ad una porzione di territorio nazionale protetto del 22 per cento.

Con questo possiamo affermare che le aree protette in Italia hanno finalmente superato ataviche e interessate resistenze e malintese interpretazioni?

Che non ci sono più parchi sulla carta e che tutte le aree naturali protette sono diventate produttori di ricchezza per molte aree marginali del nostro Paese?

Sicuramente ancora no o, almeno, non in tutti i casi.

Il parco costituisce, ancora oggi, una sfida per un rapporto profondamente rinnovato e rispettoso con l’ambiente e il territorio.

Il parco, oltre a conservare e proteggere la natura, deve essere anche animatore sociale, economico e culturale, ma non fare business.

Il parco è una struttura territoriale vasta e complessa, a cui sono affidati vari ruoli, dalla conservazione della natura all’intervento attivo di risanamento ambientale, dal contenimento del consumo del suolo e dell’espansione urbana al riequilibrio e alla cura degli insediamenti. In un mutato rapporto tra uomo e natura, i parchi si propongono come volano di un vero sviluppo compatibile con l’ambiente e produttore di servizi ambientali.

È per questo che i parchi sollecitano le realtà locali a riscoprire le loro identità culturali ed economiche e a promuovere una nuova imprenditoria locale.

Purtroppo, ancora oggi, in diversi parchi italiani, la mancata adozione di fondamentali strumenti di pianificazione e gestione, come il piano del parco, il regolamento, il piano pluriennale per lo sviluppo socio-economico delle comunità locali, il piano di gestione delle riserve naturali, rende assolutamente carente la programmazione e non misurabile l’efficacia di gestione.

Queste sono le vere riforme che la legge quadro vigente chiede di attuare.

Nonostante ci sia stato un aumento delle aree protette e delle necessità operative, le risorse messe a disposizione, rispetto a dieci anni fa, si sono notevolmente ridotte.

Il personale occupato nelle aree protette nazionali non è adeguato alle necessità di gestione.

Nei parchi nazionali le piante organiche non sono state completate; in molti casi, le assunzioni effettuate raggiungono appena la metà di quelle previste e le ricadute negative sullo svolgimento delle attività amministrative e tecniche dell’ente sono sempre più evidenti.

Ma al di là di queste criticità, che, sommate, pongono serie difficoltà al raggiungimento di un sistema realmente rappresentativo ed efficace di aree protette, il problema reale, la responsabilità è sia delle attuali politiche nazionali sia di molte delle amministrazioni regionali e locali: troppe volte, queste minano il significato stesso delle aree protette, della loro missione, generando ritardi, lacune, involuzioni, procedendo verso un processo di svuotamento delle funzioni e del ruolo delle aree protette, a vantaggio di istanze localistiche e di politiche clientelari.

Oggi, purtroppo, alcune aree protette sembrano più agenzie del turismo, grandi pro loco piuttosto che luoghi dedicati alla conservazione, alla tutela, alla promozione e alla valorizzazione, non solo intesa in termini di economia spicciola, come la chiamo io, come ci siamo abituati negli ultimi decenni, dell’immenso patrimonio che possediamo.

Troppe volte, ci siamo ritrovati a veder gestire questi parchi da persone senza alcun titolo e la benché minima conoscenza di quello che avrebbero dovuto fare.

Certo, non è un titolo che insegna a fare quello che si deve fare, probabilmente è l’etica, ma un titolo è indispensabile.

Quante volte abbiamo riconosciuto nomi di persone che sono state ricollocate politicamente, garantendogli una cosiddetta poltrona?

Magari, persone vicine al politico di turno che gli garantiva la fiducia?

Un modello, quello delle nomine, che il nostro Stato conosce, purtroppo, troppo bene.

Sia a livello nazionale che regionale, le nomine degli enti di gestione sono diventate di carattere quasi esclusivamente politico e non ispirate all’esperienza o alla professionalità dei candidati; e dove questo non avviene o non è possibile, si sceglie la strada del commissariamento.

È questo che abbiamo denunciato sempre, Presidente: noi, come gruppo, lo abbiamo fatto attraverso numerosi atti di sindacato ispettivo.

Avremmo voluto vedere nominate, in questi decenni, persone rappresentative, al di sopra degli interessi locali, con un’esperienza consolidata nel campo della tutela e della valorizzazione del patrimonio naturale e, soprattutto, con una cultura ambientalista riconosciuta, proprio come è bene esplicitato dall’articolo 9 della legge quadro n. 394, che ora si vuole cambiare.

Ed è scritto così, Presidente: “Il consiglio direttivo è formato dal Presidente e da otto componenti, nominati con decreto del Ministro dell’ambiente, sentite le regioni interessate, scelti tra persone particolarmente qualificate per le attività in materia di conservazione della natura”.

Altro che se non c’è la richiesta della qualifica!

Tutte le volte che questo disposto di legge è stato eluso, la gestione dei parchi ha perso ogni prospettiva di corretta attuazione della legge.

La legge n. 394 del 1991 soffre innanzitutto di norme disattese, di mancate applicazioni e di distorsioni applicative, piuttosto che dell’errata articolazione delle disposizioni normative che oggi si vogliono modificare.

Per anni, le associazioni ambientaliste hanno chiesto che si celebrasse la terza conferenza nazionale sulle aree protette quale luogo in grado di dare una visione organica e d’insieme delle varie problematiche che si sono evidenziate nel corso degli anni.

Mi piacerebbe, Presidente, che il presidente Realacci e il relatore Borghi ascoltassero attentamente quello che ho da dire, perché vorrei che davvero noi potessimo interloquire in quest’Aula…

PRESIDENTE. Credo stiano ascoltando.

SERENA PELLEGRINO. Sarebbe stato quello il momento dedicato per individuare i punti da aggiornare e migliorare la legge n. 394 del 1991 e avrebbe garantito alla riforma della legge il recepimento di una piattaforma largamente condivisa e basata su un’analisi fattiva e ponderata.

Per affrontare il tema di un’efficace riforma delle aree protette, si sarebbe dovuto partire dai principi in tema di conservazione della natura, che corrispondono agli obblighi internazionali sottoscritti dal nostro Paese e dalla nostra Carta costituzionale, troppe volte disattesa.

Ricordiamoci che nel 1991, quando è stata redatta questa legge, non c’era la Convenzione internazionale sulla biodiversità, né la strategia nazionale per la biodiversità; non c’era la Rete Natura 2000 e non esisteva la Convenzione europea sul paesaggio.

Insomma, mancavano quei riferimenti fondamentali che ci avrebbero aiutato a dire in modo univoco che un’area protetta è un’area geograficamente determinata, prescelta, regolamentata e gestita al fine di conseguire obiettivi specifici di conservazione della biodiversità.

Invece, si è assistito ad una serie di proposte di modifica che, partendo dal Senato, si sono stratificate e, a causa della loro frammentarietà, hanno avuto come risultato una disorganicità del testo unificato, non risolvendo affatto molte delle questioni aperte.

Possiamo affermare che non è stato rafforzato il sistema dei parchi attraverso un reale miglioramento della legge nazionale di riferimento; è stato invece licenziato un testo di riforma la legge sulle aree protette, prima dal Senato, poi dalla Commissione ambiente della Camera, che rappresenta un pericoloso passo indietro, generando una sorta di sanatoria di tutte le applicazioni distorte che si sono avute della legge n. 394.

Corriamo il rischio concreto di consegnare gli enti parco alle logiche di degenerazione localistiche e partitocratiche e sono fermamente convinta che il presidente Realacci e l’onorevole Borghi non vogliono questo.

Nel testo che andremo a esaminare viene, infatti, sancito che il presidente di un parco nazionale non necessita di alcuna competenza specifica e riconosciuta in materia ambientale e culturale.

Anche i criteri di scelta del direttore dei parchi nazionali e delle aree marine protette sono particolarmente dequalificanti: si chiede che sia un soggetto assunto quale dipendente a tempo determinato per svolgere funzioni dirigenziali di carattere generale.

Nessun riferimento alla dimostrazione di competenza di carattere tecnico per quanto riguarda le tematiche attinenti alla pianificazione territoriale, alla gestione degli habitat e alla conoscenza dei principi fondamentali di biologia della conservazione.

Troviamo assolutamente sbagliata l’introduzione, nei consigli direttivi, del rappresentante di alcune categorie economiche: riteniamo che alteri fortemente non solo l’equilibrio, ma anche la logica di una gestione che si basi sulla presenza nell’organo decisionale di rappresentanti degli interessi generali qualificati per le attività in materia di conservazione della natura.

Che dire, poi, della confusione generata dai contenuti degli articoli 6, 22 e 24, che trattano il nulla osta e l’iter autorizzativo per interventi di natura edilizia e abusi edilizi?

Sappiamo bene che se, si apre uno spiraglio, poi si spalanca la porta alle degenerazioni e, purtroppo, l’Italia conosce bene gli abusi edilizi; e che dire dell’articolo 26, che riguarda il riordino del sistema di riconoscimento delle associazioni di protezione ambientale da parte del Ministero dell’Ambiente?

Un argomento totalmente fuori contesto, che con una legge dei parchi non ha nulla a che vedere.

Per non parlare della confusione che si genererà in merito alla questione della gestione della fauna, sia nei parchi che nelle aree contigue.

Attraverso la modifica che è stata apportata al comma 1 dell’articolo 5, si afferma che la caccia può essere esercitata solo dai soggetti residenti nel parco o nelle aree contigue e, appena dopo si dice, invece, che l’attività venatoria può essere esercitata solo da soggetti aventi facoltà di accesso all’ambito territoriale di caccia comprendente l’area contigua.

Ovvero: la prima parte è stata modificata, la seconda è esattamente come uscita dal Senato.

Insomma, chi è che può cacciare nei parchi e nelle aree contigue?

E poi, Presidente, non è stato dichiarato ovunque che nei parchi non sarebbe stata prevista la caccia?

Visto che viene chiamata proprio così nel testo, i sostenitori di questa riforma ci possono spiegare cosa si intende in questo testo per caccia?

È evidente, Presidente, che la mia è una provocazione, ma vogliamo mettere in evidenza che apporre delle modifiche a una legge quadro non è cosa facile, né tanto meno elementare, dove i rischi di sbagliare sono immensi, soprattutto se si votano 700 emendamenti in tre ore.

L’unica vera questione relativa alla caccia è la gestione delle specie in esubero.

Dico che, anziché andare alla ricerca di certificazioni per cacciatori da parte dell’ISPRA, potremmo incaricare gli organi di ricerca, dotandoli di un fondo speciale, per trovare gli strumenti adatti a sterilizzare le due specie che sono in esubero e, nel giro di un paio di generazioni, avremmo eliminato il problema, togliendo ai cacciatori il pensiero di fare – permettetemi questa parola – contrabbando di carne di cervo e di cinghiale, che gli agriturismi pagano a peso d’oro.

Lascio per ultimo un nodo cruciale: le relazioni tra lo Stato e le solite multinazionali dell’energia con coloro che la trasportano, stakeholders sempre pronti a chiedere un pezzo di più.

È stato necessario approvare un emendamento che vieti le prospezioni petrolifere: un’ovvietà, direbbe qualcuno, invece si è dovuto ribadirlo e farlo diventare norma.

Vorrei porre l’attenzione sull’attivazione delle nuove economie, così come voluto dal Senato, che passerebbero attraverso l’istituzione delle royalties, una parola che, detta così, sa anche di buono; ma perché non le chiamiamo con il loro vero nome?

Compensazioni.

Sì, perché è di questo che si tratta: attraverso le loro rappresentanze locali, cedono il patrimonio e la loro salute per quattro denari.

L’utilizzo delle compensazioni è una pratica da eliminare, sottosegretario, non solo e soprattutto nelle aree protette, ma ovunque e non perché lo chiedono gli stakeholders, che non vogliono pagare il dazio, ma perché è una pratica assolutamente vergognosa.

I produttori e i gestori di energia, già ampiamente finanziati dai cittadini attraverso le casse dello Stato, chiedono ancora e con le briciole ripagano il maltolto.

È evidente che, in un momento in cui tutti gli enti sono in affanno, qualche centinaia di migliaia di euro fa comodo per mantenere l’ordinaria amministrazione.

Ma ci vogliamo rendere conto, una volta per tutte, che è un meccanismo costruito ad arte per mantenere un’economia che sostiene esclusivamente i soliti nomi?

Se tutto questo è potuto accadere, su ogni parte del nostro patrimonio – io lo chiamo patrimonio, Presidente, perché l’Italia ha un patrimonio, lasciatoci dai nostri padri, incommensurabile -, non possiamo tollerare che si possa perpetrare anche su aree così sensibili; ne va della nostra sopravvivenza.

La conversione ecologica, di cui tutti si riempiono la bocca ogni giorno, deve partire da qui, dal cuore del bene naturale.

Fargli mettere anche solo la zeppa nella porta, significa spalancargliela domani in modo totalmente legittimo e ci diranno: lo prevede la legge.

Ma la legge la stiamo facendo noi, qui, ora, e noi siamo i responsabili delle sue conseguenze.

Dovremmo, invece, promuovere un’economia sulla bellezza di questi luoghi, altro che farci pagare per gli scempi perpetrati!

I cittadini, che risiedono nei parchi, dovrebbero essere i veri motori di questa economia.

Signor Presidente, vado alle conclusioni.

Non è un caso che le più importanti associazioni ambientaliste italiane si siano opposte a questa proposta di legge e non per avere qualche posticino al sole all’interno dei consigli direttivi dei parchi.

I parchi italiani hanno bisogno di una buona riforma e non del pericoloso e grave passo indietro nella gestione del sistema delle aree naturali protette italiane, rappresentato dal testo che nei prossimi giorni sarà in discussione nell’aula della Camera.

Gli emendamenti che abbiamo proposto di concerto con le associazioni possono ridare dignità alle modifiche che avete apportato alla legge quadro, esattamente quel miglioramento che veniva chiesto negli ultimi anni dell’applicazione della legge o, meglio, della non applicazione della legge.

Mi auguro davvero che il presidente della Commissione ambiente, Realacci, di cui ho grande stima, e il relatore, abbandonino la fretta con cui sono stati trattati temi fondamentali quali la governance dei parchi e assicurino finalmente il rispetto di quella gerarchia di valori ribadita in più occasioni dalla Corte costituzionale per la quale la tutela dell’ambiente deve prevalere sempre, su qualunque interesse particolare, locale, economico, politico o privato.

Direi che dobbiamo cercare di accorgercene prima di ottenere lo sfratto definitivo da Madre terra, le cui leggi eco-sistemiche sono prevalenti su tutto e su tutti noi e che sicuramente dobbiamo ricordarci che le leggi eco-sistemiche non sono emendabili e non sono derogabili, che non ci danno né sanzioni amministrative né sanzioni penali ma semplicemente ci dicono: guardate, voi non siete più degli ospiti interessanti per me.

 

 

 

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