Mose, la storia di un monopolio che inizia trent’anni fa

 

VENEZIA. Lo scandalo Mose non è finito.

La sentenza di ieri mette un punto fermo sugli aspetti penali della vicenda, chiedendo il conto ad alcuni protagonisti della salvaguardia degli ultimi vent’anni.  Giudizi non ancora definitivi.

E orizzonte parziale, anche se importante.

La storia giudiziaria del Mose è giovane.

Le indagini della Finanza e della magistratura hanno portato in superficie un mondo fatto di corruzione e malaffare, di tangenti e illeciti.

Ma la storia politica del Mose, la più grande opera del Dopoguerra finanziata dallo Stato e affidata in concessione a un pool di imprese private, è molto più antica.

Una storia in parte ancora da scrivere.

Trent’anni di monopolio e di decisioni imposte dall’alto.

Anche contro la volontà dei territori e delle popolazioni di Venezia.

Il monopolio.

La madre di tutti i vizi – e di molte tangenti – è il particolare meccanismo ideato nel 1984, 33 anni fa, con la seconda Legge Speciale: l’;affidamento della concessione unica al Consorzio Venezia Nuova. Si stabiliva allora, in nome della salvezza di Venezia, che le opere di salvaguardia sarebbero state eseguite dal nuovo Consorzio.

Niente gare d’appalto, né concorrenza.

I controlli li doveva fare il Magistrato alle Acque.

Ma, corruzione a parte, l’ufficio lagunare dello Stato non ha mai avuto le forze per controllare il concessionario. Mazzacurati.

L’inventore del Mose era il padrone quasi assoluto del Consorzio.

Lui stabiliva le quote di lavori spettanti a ogni impresa, i prezzi e le consulenze, la destinazione dei finanziamenti. Si scoprirà poi che buona parte di quel denaro veniva accantonato per costituire i fondi neri necessari a «oliare» il meccanismo.

Il presidente Mazzacurati diventa anche direttore.

Guadagna in otto anni 32 milioni di euro.

50 mila euro di stipendio al mese più benefit.

Quando se ne va dal Consorzio gli riconoscono una liquidazione di 7 milioni.

Viene arrestato, ironia della sorte, per «turbativa d’asta» sullo scavo dei canali portuali.

Lui che di aste e gare ne ha fatte davvero poche.

Dodici per cento.

L’altra invenzione all’origine del grande malaffare si chiama «oneri del concessionario».

Per ogni lavoro grande e piccolo realizzato dalle imprese del Mose, al Consorzio spetta il 12 per cento. Su sei miliardi di costo sono più di 700 milioni di euro.

Oltre ai fondi neri, un altro serbatoio dove attingere.

In trent’anni il Consorzio ha finanziato pubblicazioni e riviste, opere liriche e scuole del patriarcato, ricerche universitarie e squadre sportive, aziende e consulenti.

Tra le spese anche quintali di olio commissionati da Mazzacurati all’azienda del figlio.

Pagati con i soldi del Consorzio e distribuiti agli amici.

La Finanza.

Quando nell’estate del 2010 la Guardia di Finanza entra al Consorzio Venezia Nuova, qualcuno capisce che il santuario non è più tale.

Cercano i fondi neri, che poi daranno origine alla grande inchiesta.

«Normale verifica fiscale che si fa alle aziende», rassicura Patrizio Cuccioletta, presidente del Magistrato alle Acque, poi arrestato nell’inchiesta Mose.

Mazzacurati viene avvisato in mattinata.

«Qualche giornale scrive che la Finanza è a caccia di fondi neri».

«Sarà il solito giornalista», replica l’ingegnere.

Gli extracosti.

Non ci sono solo tangenti e fondi neri.

Ma anche i prezzi gonfiati.

Facile in regime di monopolio.

Solo per i sassi del Mose sono stati pagati 61 milioni in più. La Corte dei Conti indaga.

Ma dove sono finiti quei soldi?

Soldi che scivolano anche nelle pieghe delle convenzioni firmate dallo Stato con il Consorzio per il «prezzo chiuso».

Ma il costo complessivo delle dighe lievita, passa dal miliardo e mezzo del progetto preliminare (anni Novanta) fino ai 5 miliardi e 600 milioni di oggi, manutenzione e gestione esclusa (almeno 80 milioni l’anno).

Baita. Piergiorgio Baita, ingegnere e presidente della Mantovani, socio di maggioranza del Mose nell’era Galan, è il primo a essere arrestato a inizio 2013 per fatture false.

Si fa 200 giorni di carcere, racconta e alla fine darà una grossa mano ai pm a ricostruire il quadro della corruzione.

Per lui ancora non c’è il rinvio a giudizio.

Corte dei conti.

L’allarme su quanto stava succedendo era stato dato nel 2007 da un coraggioso magistrato della Corte dei Conti di Roma, Antonio Mezzera.

La sua relazione è un duro atto di accusa su sprechi e mancanze del progetto.

Le alternative.

Una delle accuse dei comitati e di molti scienziati critici con il progetto Mose è quella di non aver mai preso seriamente in considerazione le alternative progettuali.

Altre idee su come ridurre le acque alte, meno costose, meno impattanti e forse anche più affidabili. I progetti illustrati dal’ex sindaco Cacciari al governo Prodi non erano stati considerati.

Prodi, dopo Berlusconi, aveva scelto di dare carta bianca alle tesi del Consorzio: «Si va avanti con il Mose». 

Non vengono considerati i pareri critici degli scienziati indipendenti sulle tante criticità del Mose.

Le cerniere.

Il cuore del sistema Mose sono le cerniere.

Costruite, anche queste senza gara, dalla Fip di Selvazzano di proprietà della Mantovani, specializzata in cerniere «saldate».

Armando Memmio e Lorenzo Fellin, ingegneri strutturisti, sollevano dubbi nel Comitato tecnico di magistratura sulla durata delle cerniere saldate rispetto a quelle fuse. Vengono licenziati.

Le incognite.

Gli effetti dello scandalo non sono finiti. Criticità e problemi di corrosione, di tenuta, di manutenzione vengono alla luce insieme ad errori progettuali.

Ma questa è la seconda parte della storia.

(Articolo di Alberto Vitucci, pubblicato con questo titolo il 18 settembre 2017 su “La Nuova di Venezia e Mestre”)

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Vas