Caduti per il lavoro.

 

Lavorare fa male alla salute”. E’ il titolo di un libro scritto da due donne, Jeanne Stellman e Susan Daum, pubblicato nel 1973 e subito tradotto in italiano da Feltrinelli, una amara e spietata denuncia delle tante cause di morte e di dolore a cui sono esposti milioni di persone nell’ambiente delle fabbriche, dei cantieri, delle miniere. 1200 morti sul lavoro ogni anno in Italia, per cadute dalle impalcature o nei pozzi, per contatto con sostanze tossiche, o con getti incandescenti di metalli fusi. Molti altri muoiono nel corso degli anni per esposizione a polveri e a sostanze tossiche che non uccidono subito, ma corrodono lentamente i polmoni, le ossa. E’ il caso delle sostanze cancerogene o dell’amianto che uccidono dopo anni dal contatto prolungato, talvolta quando i lavoratori sono ormai in pensione.

Purtroppo molte malattie e morti sono dovute al fatto che spesso i lavoratori maneggiano delle sostanze di cui non conoscono i caratteri e la pericolosità. Soltanto di recente, dopo anni di preparazione, l’Unione Europea ha pubblicato un elenco delle sostanze pericolose per i lavoratori e i consumatori con le precauzioni da adottare nel loro uso, con le sigle che devono essere usate per consentirne il riconoscimento. Il risultato è un grande dizionario merceologico noto con la sigla Reach (acronimo di “Registration, Evaluation, Authorization and Restriction of Chemical Substances”) contenuto nei due Regolamenti 1907/2006 di 438 pagine e 1272/2008 di 1355 pagine. Le sostanze considerate sono 95.000.

Di ciascuna sostanza vengono indicate le proprietà chimiche, fisiche e biologiche, le avvertenze di pericolosità, i prodotti e luoghi in cui possono o non possono essere addizionati e presenti e i rispettivi limiti. Queste norme hanno, principalmente lo scopo di diminuire le malattie e morti che si verificano nei posti di lavoro per esposizione a sostanze tossiche.

I danni alla salute di molte attività lavorative sono ben note da secoli. Già nel Cinquecento Giorgio Agricola (1494-1555), che era un medico, nel suo trattato sulle attività minerarie e metallurgiche, “De re metallica” descrive le malattie che si manifestano fra i minatori per l’assorbimento di polvere, per la vita in mezzo al fango e anche per il contatto con molti minerali. Con l’avvento dell’età del carbone, nel Settecento, alcuni medici hanno osservato che nei piccoli spazzacamini inglesi si manifestavano dei tumori allo scroto; ci sarebbe voluto oltre un secolo per riconoscere che la causa era un idrocarburo aromatico presente nella fuliggine, il benzopirene, uno dei più potenti cancerogeni. Il mercurio, impiegato per decenni nella tintura dei cappelli e anche dei capelli umani si è rivelato un veleno che provoca malattie mentali, tanto che si usa ancora dire che uno è “matto come un cappellaio”.

Sono cancerogene molte ammine aromatiche impiegate per la sintesi delle sostanze coloranti artificiali, e nella tintura dei tessuti, molti sali presenti nelle vernici. Per tutto l’Ottocento i fiammiferi sono stati fabbricati con la capocchia contenente fosforo bianco, velenosissimo per i lavoratori, spesso bambine e donne; al suo posto avrebbe potuto essere usato fosforo rosso, meno tossico, ma per decenni gli industriali si sono opporti al cambiamento, perché il fosforo rosso … costava un po’ di più di quello bianco ! Uno dei più subdoli pericoli è nascosto nell’amianto, il minerale presente in natura sotto forma di sottili filamenti, adatti alla filatura e tessitura di manufatti resistenti al fuoco, perfetto come isolante termico e acustico, miscelabile con il cemento nella produzione di tubi e vasche resistenti agli acidi ed eterni, come indicava il nome, Eternit”, scelto per tali manufatti di amianto-cemento.

Col progredire della medicina del lavoro, delle conoscenze chimiche e biologiche, con la protesta dei lavoratori, la produzione e l’uso di molte sostanze tossiche, è stato vietato: si possono ricordare ancora il piombo tetraetile, l’arsenico, certi sali di cromo, molti ingredienti di materie plastiche, il cloruro di vinile, molti pesticidi. L’elenco potrebbe continuare; molti dolori e morti sarebbero potuti essere evitati se ogni nuova sostanza chimica immessa in commercio fosse stata preventivamente studiata per la potenziale tossicità, se si fosse intervenuti ogni volta che appariva qualche segnale di pericolo. Soprattutto se i lavoratori fossero stati informati dei pericoli a mano a mano che si rivelavano. Questa diffusione di conoscenze sulle sostanze usate nell’ambiente di lavoro è proprio il contributo che i lavoratori del mondo si aspettano dalla procedura Reach.

Immaginate una guerra durante la quale, nel mondo, ogni anno, 3 milioni di persone muoiono subito e per le ferite, le mutilazioni, le lesioni e le malattie riportate, e in cui 350 milioni di persone soffrono per malattie dovute a eventi degli anni precedenti; una guerra che non risparmia donne e bambini i quali, anzi, sono maggiormente esposti e colpiti.

Questa guerra è in corso, continuamente, e le persone di cui parlo sono operai e contadini, guidatori di treni o navi o camion, fabbricano automobili o edifici o scavano carbone nelle miniere e pietre nelle cave. Di questi morti e feriti non esistono neanche statistiche esatte perché molti sono lavoratori non protetti, non registrati dalle agenzie delle Nazioni Unite o dei singoli governi. Spesso le morti o le malattie privano una famiglia dell’unica fonte di reddito.

19 settembre 1943 nasceva a Roma l’associazione nazionale fra lavoratori mutilati e invalidi del lavoro (ANMIL) che la stessa data, ogni anno, ricorda le vittime del lavoro. A livello internazionale nel 1989 in Canada fu deciso di dedicare in tutto il mondo un giorno, il 28 aprile di ogni anno, alla memoria dei caduti sul lavoro. Secondo il pensiero corrente sarebbe finita l’esistenza della “classe operaia”; si dedica molta attenzione all’ecologia e alla difesa della natura e dell’ambiente che sono intorno a noi. Si finisce però per dimenticare che la prima ecologia si ha nell’ambiente di lavoro dove un enorme numero di persone, alcuni miliardi nel mondo, vengono ogni giorno a contatto con le mani e col corpo con sostanze tossiche, operano in condizioni di pericolo, sono esposti a rumori e anche a nuove forme di nocività come le radiazioni delle apparecchiature elettriche ed elettroniche.

Non si dovrebbe morire, e neanche ferirsi o ammalarsi “per il” lavoro, che non è una cosa astratta, il mezzo per portare a casa un salario o stipendio, ma è la più importante attività umana, quella che permette a ciascuno di noi, di muoverci, di scaldarci, di avere ogni giorno nei negozi gli scaffali pieni delle merci che desideriamo.

Si dimentica, o si fa finta di non sapere, che in ciascuna merce o sevizio (assistenza medica, mobilità, turismo, istruzione, eccetera) c’è “dentro” abilità e fatica e dolore — e anche morte — di qualche essere umano, donna, adulti o ragazzi, vicino o lontano. Nel giornale che avete fra le mani c’è l’inchiostro e la carta che sono stati resi possibili dal lavoro di qualche persona che ha tagliato gli alberi nella foresta, che li ha trasportati per camion, e poi li ha scaricato nelle cartiere e ha trasformato il legno separando la cellulosa con sostanze chimiche che sono state prodotte in qualche fabbrica partendo dal sale scavato nelle miniere, e poi la cellulosa è stata trasformata da qualcuno in carta, e poi trasportata verso la tipografia guidando i camion e poi scaricata e messa nelle rotative da altri lavoratori, e poi addizionata con le informazioni fatte da altri laboratori, o giornalisti, nei loro computer fabbricati da altri lavoratori in Cina o Taiwan; informazioni trasferite sull’inchiostro fabbricato da lavoratori chimici e alla fine altri lavoratori hanno trasportato il giornale all’edicola che è stata aperta alle cinque del mattino dal lavoratore-edicolante. Ciascuno di noi-voi se la cava dando qualche soldo al giornalaio e dopo poco carta, inchiostro, informazione — e la somma di tanta fatica umana — finiscono fra i rifiuti che altri lavoratori raccoglieranno e trasporteranno guidando altri camion, in qualche fabbrica di riciclo o inceneritore o discarica.

Solo in Italia ogni anno i morti sul lavoro sono oltre 1000 e gli incidenti sul lavoro oltre mezzo milione. Ma questi numeri sono ingannevoli perché vengono contabilizzati solo coloro che muoiono direttamente o in breve tempo dopo l’incidente; molti altri muoiono a mesi o anni di distanza per le conseguenze dell’assorbimento, durante il lavoro, di polveri o sostanze tossiche o cancerogene. Il caso più clamoroso è quello dei morti fra gli operai che hanno maneggiato l’amianto, una delle perverse sostanze cancerogene che da oltre mezzo secolo sono presenti intorno a noi, un lento veleno che proviene dagli isolamenti termici e acustici, da tubazioni, recipienti e tettoie di amianto-cemento, dai freni degli autoveicoli e che continua a minare la salute di coloro che son ancora esposti all’amianto nelle operazioni di rimozione, eliminazione e smaltimento di manufatti contenenti le pericolose fibre.

L’amianto è solo una delle molte nocività presenti nell’ambiente di lavoro. da decenni le organizzazioni dei lavoratori si battono per eliminarle; nei paesi europei solo dopo lunghe e dure lotte, dopo varie inchieste parlamentari, sono state ottenute delle leggi che migliorano (che dovrebbero migliorare) le condizioni di lavoro e diminuire i pericoli e per informare i lavoratori sui pericoli da cui sono circondati e a cui sono esposti, spesso senza saperlo.

Ci sono voluti anni per eliminare i più tossici fra i solventi clorurati impiegati nelle lavanderie “a secco”, o il benzene nelle colle impiegate nella produzione di scarpe, o per imporre le maschere di protezione per gli addetti alla verniciatura a spruzzo.

 

Spesso le norme non sono osservate perché rallentano il lavoro o impongono maggiori costi; purtroppo spesso il pericolo “non si vede” e non si sente e i tumori o le malattie si fanno sentire a molti anni di distanza, come si è visto nel caso dell’intossicazione da cloruro di vinile o dagli altri silenziosi veleni, tanto che è difficile, anche a fini di assicurazioni e risarcimenti e responsabilità dei datori di lavoro, riconoscerli come la vera causa di molte morti.

In edilizia si contano i lavoratori che muoiono cadendo dalle impalcature ma è difficile riconoscere quelli che muoiono lentamente per aver respirato polveri, solventi nelle verniciature per anni di fatica fisica. Nocività e veleni mutevoli nel tempo in seguito a “innovazioni” tecniche, all’uso di nuove materie prime, alla diffusione di nuove attività, come quelle che hanno a che fare con lo smaltimento dei rifiuti urbani e industriali, anch’essi di composizione mutevole a seconda della provenienza. Nelle stesse università e nei centri di ricerca ci sarebbe moltissimo da fare, per chimici, ingegneri, medici, merceologi, per aiutare i lavoratori a conoscere le sostanze pericolose con cui vengono a contatto.

I morti sul lavoro meritano al più qualche frettolosa riga nella cronaca dei giornali. Mi piacerebbe che i loro funerali ricevessero qualche pubblico tributo, dal momento che si tratta di persone che hanno dato la vita per assicurare una frazione del benessere di cui ciascuno di noi gode. Ci sono delle città in cui una via o una piazza è dedicata ai “Caduti sul lavoro”; sarebbe importante che di loro si parlasse nelle scuole, dal momento che i ragazzi di oggi sono pure i lavoratori di domani.

Articolo di Giorgio Nebbia, pubblicato sabato 28 aprile dal quotidiano “Il Manifesto“. La foto di apertura è stata tratta da “Il sito di Sicilia“.

La seconda foto rappresenta “Il Monumento ai Caduti del Lavoro”, istallato in Corso Italia a Legnano, e realizzato nel 1984 da Gianluigi Bennati.

 

 

 

 

 

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