L’economia della conoscenza sta uccidendo la nostra provincia

 

La vittoria di Donald Trump negli Stati Uniti, la Brexit benedetta dai cittadini del Regno Unito, l’ingresso del partito di ultra destra Alternative für Deutschland nel Bundestag tedesco, la schiacciante vittoria di Viktor Orbán in Ungheria e, ancora, l’Italia, con la vittoria elettorale di Lega e Cinque Stelle, portavoce di un malcontento diffuso.

Questi avvenimenti, genericamente catalogati alla voce populismo, sono l’effetto di un nuovo modello economico basato non più sull’industria, bensì sulla conoscenza, il cui risultato è la diseguaglianza territoriale in vertiginoso aumento.

«Immaginatevi un mondo con poche e piccolissime isole di prosperità, immerse in un mare di povertà e stagnazione.Ci stiamo dirigendo lì», a parlare è l’economista Joan Rosés, professore alla London School of Economics, che insieme a Nikolaus Wolf, capo economico alla Humboldt University di Berlino, ha creato un logaritmo in grado di definire dove si sta accumulando la ricchezza.
A giugno uscirà il loro libro che promette di essere il secondo atto dell’inquietante descrizione fatta dal francese Thomas Piketty in “Il Capitale nel XXI secolo”, pubblicato nel 2013.

Piketty mostrava come i ricchi sarebbero diventati sempre più ricchi perché i rendimenti del capitale accumulato dalle persone abbienti sono e saranno sempre maggiori rispetto alla crescita dell’economia reale, favorendo quindi la disuguaglianza. Insomma, l’economista ha previsto un ritorno all’Ottocento, quando un buon matrimonio era sempre più remunerativo di un qualsiasi lavoro danaroso.

Rosés e Wolf aggiungono che non solo la ricchezza si accumula nelle mani di pochi, ma si concentra in alcune aree, per lo più urbane, creando il vuoto intorno.

Dati alla mano, l’hanno dimostrato nell’abstract “The return of regional inequality: Europe from 1900 to today”, dove si dimostra come il periodo di diffusione della ricchezza si è concluso a metà degli anni Ottanta, in concomitanza con la chiusura dell’epoca fordista e con la fine delle grandi fabbriche, per fare spazio all’economia della conoscenza e alla globalizzazione.

L’Italia è fra i paesi più colpiti da questo fenomeno di impoverimento diffuso.

Tant’è che non è più possibile parlare di un Nord ricco e di un Sud povero, ma succede che i comuni più indigenti si trovino non troppo lontano dalla più ricca città italiana, Milano.

Dalle dichiarazioni dei redditi 2017 si scopre che fra i dieci comuni con la media reddituale più bassa d’Italia ci sono i due municipi comaschi Cavargna e Val Rezzo, la trentina Dambel e ben quattro comuni della provincia di Verbano Cusio Ossola, che separa il Piemonte dalla Svizzera, si tratta di Cavaglio-Spoccia, Gurro, Falmenta e Cursolo-Orasso, record nazionale con una ricchezza pro capite di 5.568 euro l’anno, in crollo del 24 per cento rispetto a due anni fa.

I quattro comuni si trovano tutti nell’impervia e isolata val Cannobina dove, fino a qualche decennio fa, si viveva di coltivazione e allevamento.

Poi la gente del posto è migrata in Ticino, dove l’industria prospera e lassù sono rimaste non più di 700 persone, sprovviste di tutto.

Non c’è una scuola, un asilo nido, un pronto soccorso, una banca, un supermercato e le strade, soggette a frane, vengono chiuse di frequente: meno di un mese fa il collegamento con la Svizzera è stato interrotto per l’ennesimo smottamento in cui hanno perso la vita due persone.

Sono valli e montagne dimenticate da dio e sono anche l’esempio perfetto dell’Italia mappata dalla Presidenza del consiglio all’interno della Snai, la Strategia Nazionale per le Aree Interne, cioè quelle zone in cui i servizi scarseggiano.

Le Aree Interne rappresentano oltre metà dei comuni italiani, ospitano meno di un quarto della popolazione, ma occupano il 60 per cento della superficie nazionale e, come dicono gli economisti Rosés e Wolf nel loro lavoro, quelle zone stanno aumentando.

E non coinvolgono più le tradizionali aree del Centro Sud, ma anche zone del Nord, come l’altopiano di Asiago, un tempo distretto turistico importante, oggi cenerentola di Cortina d’Ampezzo che d’inverno e d’estate fa il tutto esaurito, mentre ad Asiago non si ferma nessuno.

E ancora soffrono le Dolomiti friulane, che nonostante non abbiano nulla da invidiare a quelle trentine stentano a intercettare la crescita economica: dopo la chiusura delle caserme al confine, non trovato altra fonte di reddito, ed è sfumato il tentativo di fare del monte Coglians, un tempo presidio militare, un luogo di prosperità.

C’è di più, Rosés sostiene che in Italia l’aumento delle disuguaglianze porterà anche alla fine del modello dei distretti industriali, spazzati via dalla nuova tendenza dei capitali ad accentrarsi nelle città più forti: «Il boom economico aveva portato all’Italia una fase di espansione e diffusione del benessere nelle province, perché è lì che gli imprenditori hanno aperto gli stabilimenti, facendo proliferare i distretti produttivi industriali.

Oggi, invece, l’economia della conoscenza tende ad accentrare i migliori capitali umani nella città.

Quest’ultima ha bisogno di poche persone molto istruite e ciò sta creando poli di estrema ricchezza e benessere, lasciando tutti gli altri al palo.

Questo fenomeno si sta verificando ovunque.

In Cina la ricchezza delle città intellettualmente avanzate si scontra con l’arretratezza culturale e il disagio economico e sociale delle zone periferiche, delle campagne, delle aree dimenticate; in Spagna, Barcellona fa da locomotiva con i suoi centri d’eccellenza per la grafica e il design, mentre il resto del paese va al traino; Londra risucchia il 20 per cento delle società che al mondo si occupano di programmazione e informatica, staccando il resto dell’Inghilterra di parecchi punti di pil; lo stesso succede negli Stati Uniti, dove Los Angeles, San Francisco e New York diventano sempre più ricche rispetto alla media nazionale».

Città in salute e attrattive contro piccoli centri poveri e svuotati.

Questo stesso fenomeno era stato individuato già all’inizio del Duemila dall’economista polacca e commissario europeo alle politiche regionali Danuta Hubner, che insieme all’italiano Fabrizio Barca, ex ministro del governo Monti, si era resa conto che la globalizzazione e l’abbattimento delle barriere intraeuropee stavano aprendo una profonda frattura, portatrice di diseguaglianza.

Hubner e Barca avevano previsto il massiccio spostamento delle persone verso le aree più ricche e, per invertire la rotta, avevano cercato di attivare un sistema di politiche di coesione sociale per contrastare il fenomeno.

Ma in molte zone il sostegno si è limitato a finanziamenti a pioggia, alla creazione di infrastrutture inutili, a clientelismi a favore dei politici locali che per qualche anno sono serviti a sedare rabbia e malcontento.
Ma poi sono esplosi.

È il caso della Brexit, come spiega Andrés Rodríguez-Pose, economista che ha studiato il legame fra il declino economico e l’ascesa del populismo: «La Brexit è un voto di vendetta dei luoghi marginali, che non sono stati toccati dalla crescita.

L’Inghilterra ha investito tutto su Londra, pensando che per osmosi avrebbe trascinato l’intero paese verso la ricchezza.

Invece si è formata una spaccatura.

La gente di Manchester, Leeds, Sheffield avrebbe votato contro qualsiasi iniziativa appoggiata da Londra.

Lo stesso è avvenuto in Francia, dove Marine Le Pen ha vinto nelle regioni del Nord Est, segnate dal declino economico e inascoltate.

Il loro, dunque, non è un voto contro l’Europa, ma una protesta contro le élite che vivono nel benessere.

Infatti lo stesso fenomeno accade in Argentina, Perù, Bolivia e Venezuela, persino in Thailandia, un paese diviso in due.

Da un lato Bangkok e le aree turistiche del Sud che votano per i democratici, dall’altro il Nord, povero e arretrato, che vota per il partito populista.

Qui la frammentazione ha creato un conflitto che ha bloccato la crescita economica del paese. In Italia le cose vanno nello stesso modo, le aree dimenticate hanno votato Cinque Stelle e Lega».

È il caso di Tolve, un paesino della Basilicata che fino a qualche anno fa viveva della produzione di grano, business azzoppato dalle importazioni canadesi a buon mercato.

A Tolve, un tempo roccaforte dei democratici, ha stravinto il candidato della Lega, Pasquale Pepe, l’unico che sta cercando di invertire la rotta lanciando una campagna a favore dei servizi essenziali: all’uninominale ha preso il 55 per cento delle preferenze.

«Anche il voto ai Cinque Stelle e alla Lega venuto dalla rossa Emilia Romagna è un indicatore importante della sofferenza dei distretti industriali, dove le nuove forme di economia della conoscenza stanno attecchendo poco e dove ci vorrebbe una maggiore rete di attenzione», spiega Rodríguez-Pose.

Esemplare è il caso dell’Unione dei sette comuni dell’Appennino Reggiano, una zona dove vivono 33 mila abitanti in crisi.

L’assenza di lavoro ha provocato lo spopolamento delle valli.

Negli ultimi quattro anni, spiega Enrico Bini, presidente dei comuni montani, il territorio è entrato a far parte del progetto nazionale Snai «e abbiamo interpellato 350 persone per coinvolgerle nella rigenerazione del territorio.

Abbiamo rilanciato un plesso scolastico specializzato nell’elettronica e meccatronica, anche grazie alla vicinanza di un’azienda, la Elettric80, che assume i giovani usciti dalla scuola.

Questo ci ha permesso di diventare un polo attrattivo per 1.500 ragazzi che arrivano anche da Modena e Parma, ai quali vorremmo offrire un servizio autobus migliore, visto che passano tre ore al giorno sui mezzi di trasporto».

C’è un però.

Circa sei mesi fa le amministrazioni regionali hanno imposto la chiusura dell’unico punto nascite del territorio.

È bastato questo segnale di abbandono per compromettere l’intera strategia locale e spingere un territorio tradizionalmente democratico a voltare le spalle al centro sinistra e far stravincere Lega e M5S.

«Qui i progetti stanno andando avanti spediti, c’è un piano per sostenere il Parmigiano Reggiano di montagna, e trenta giovani si sono trasferiti qui per lanciare due cooperative di comunità a favore del turismo sostenibile.

Tuttavia, questi sono cittadini che per troppo tempo hanno vissuto il disagio economico e sociale ed è bastata la chiusura del reparto ostetricia per spezzare i timidi tentativi di vivacità locale», spiega Bini.

Valeria Fedeli, professoressa di Architettura del Politecnico di Milano che ha realizzato l’atlante nazionale digitale postmetropoli.it, una miniera di informazioni sul nostro paese, nel suo lavoro ha scoperto che «alcuni distretti produttivi locali hanno perso la propria forte coesione interna.

A Saronno, nella Brianza milanese, a Lumezzane, in Val Trompia si registra una flessione dei flussi interni, accompagnata da un incremento della ricerca di lavoro nelle aree esterne.

Il volume di persone che si sposta da quelle zone per cercare lavoro a Milano è impressionante», spiega la docente, che fa notare come oggi si viaggi sempre più per lavoro, specialmente in direzione delle grandi capitali economiche, la cui area di influenza si allarga, in controtendenza rispetto a quanto succedeva fino a 10 anni fa.

«C’è una faglia che vede i cittadini delle aree rurali, della provincia, fuori dall’orizzonte delle élite nazionali, penalizzati nei servizi pubblici e privati e nelle scelte di investimento, mortificati talora come luoghi di svago e nostalgia», commenta Fabrizio Barca, che per primo ha lanciato e seguito il progetto Snai Italia, sostenendo un metodo bottom up, dal basso verso l’alto, «perché le politiche imposte da Roma non sanno interpretare le necessità locali, mentre la strategia deve venire dalle persone che vivono lì e ne conoscono le peculiarità», spiega Barca.

Succede in Val Maira, dove Roberto Colombero dal 2009 è sindaco del comune di Canosio, che fa 90 abitanti, e presidente dell’Unione Montana della valle che conta 13 comuni.

«Siamo riusciti a fermare l’emorragia di giovani, ma non possiamo ancora dire che i cittadini della valle abbiano gli stessi diritti di quelli di città.

C’è ancora molto lavoro da fare».

Insieme ai sindaci e alla gente del posto, Colombero ha lanciato un progetto per capire quali fossero gli interventi da mettere in atto così da diventare una valle attrattiva.

Da qui l’idea di investire su una scuola di alta qualità, su servizi di trasporto a chiamata e sullo sfruttamento delle risorse – l’acqua e la legna – per diventare autonomi dal punto di vista energetico e farne una fonte di ricchezza economica.

A questo si aggiunge un enorme business turistico, che dà lavoro e attrae tedeschi, svizzeri e austriaci, affascinati da centinaia di sentieri curatissimi e dalle locande, dai rifugi e dagli agriturismi che offrono uno spaccato della cultura occitana.

Al contrario i siciliani delle Madonie, un territorio che dista poco meno di un’ora d’auto da qualsiasi servizio pubblico, hanno deciso di puntare tutto sulla scienza creando un parco astronomico di rilievo mondiale.

Il cielo delle Madonie è noto in campo astronomico per l’elevato numero di notti fotometriche, cioè quelle in cui le stelle sono scientificamente osservabili: questa risorsa è stata sfruttata per realizzare il Telescopio Fly-Eye, unico al mondo, per la scoperta e il monitoraggio di detriti spaziali e asteroidi pericolosi per la Terra.

La proiezione esterna del territorio delle Madonie viene anche da Ypsigrock, il festival di musica indie organizzato a Castelbuono dal 1997, con un pubblico proveniente da tutta Europa.

Sono bastate queste attrattive per richiamare sul territorio i primi giovani che, insieme a Slow Food stanno rilanciando le coltivazioni locali per vendere i grani antichi e l’albicocca di Scillato ai locali più glamour di New York.

I cambiamenti sono lenti, lentissimi.

resta da capire se davvero sia possibile ridurre le diseguaglianze fra città e provincia.

Secondo il sociologo Aldo Bonomi la risposta è affermativa: «I tempi di adattamento a un nuovo modello urbano saranno lunghissimi e la svolta arriverà quando, oltre alle smart city, potremo aver smart land mettendo le mille piccole città italiane al passo delle metropoli, ridisegnandone le funzioni, affinché tutte tornino a essere un nodo del flusso, creando nuova vitalità».

Perché, per dirla con le parole dello storico Fernand Braudel, non esiste città ricca senza una campagna florida.

 

(Articolo di Gloria Riva, pubblicato con questo titolo il 15 maggio 2018 su “L’Espresso”)

 

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