Il ghiaccio marino più spesso e vecchio dell’Artico, a Nord della Groenlandia, quest’estate si è spaccato per la prima volta, a causa dei venti caldi e delle ondate di calore che hanno interessato l’emisfero settentrionale. Il fenomeno, mai osservato finora, è stato immortalato dalle immagini satellitari, e ha portato gli scienziati a lanciare l’allarme per l’orso polare. Il mare sopra la Groenlandia è definito come “l’ultima area ghiacciata” e “l’ultimo baluardo” contro il cambiamento climatico e lo scioglimento dei ghiacci. Ma quest’anno, per due volte, il ghiaccio marino si è staccato e le acque si sono aperte, in un evento mai visto dagli anni Settanta, cioè da quando sono disponibili le registrazioni satellitari. “In passato la maggior parte del ghiaccio marino nell’Artico era un pluriennale, ma adesso la quasi totalità si riforma ogni anno. L’unica zona in cui è rimasto il ghiaccio pluriennale è a Nord della Groenlandia, ma questo ultimo baluardo si è staccato e si allontana dalla costa” spinto dai venti, ha detto Peter Wadhams, a capo del Polar Ocean Physics Group dell’università di Cambridge, al giornale inglese Independent. Il fenomeno potrebbe avere conseguenze “gravi” per la fauna locale e in particolare per l’orso bianco, che sul ghiaccio marino caccia, anche se il rischio si potrà valutare solo nella primavera prossima. “Gli orsi polari scavano buche nella neve e a primavera escono per andare a caccia. Se il ghiaccio si è spostato in mare aperto, rimangono senza un’area di caccia“, ha spiegato Wadhams. Gli orsi, infatti, “non possono spingersi molto lontano a nuoto. Se la lontananza dalla costa diventasse una caratteristica permanente, non avrebbero più il ghiaccio marino su cui cacciare. Perderebbero il loro habitat“. (ANSA del 22 agosto 2018, ore 14:58)
Archivi Giornalieri: 23 Agosto 2018
Il nuovo amministratore dell’Environmental Protection Agency (Epa) Andrew Wheeler, un ex lobbysta dell’industria del carbone, ha presentato l’Affordable Clean Energy, un piano destinato a sostituire, ma sarebbe meglio dire demolire, il Clean Power Plan approvato dall’Amministrazione di Barack Obama nel 2015. Secondo Sierra Club, la più grande e diffusa associazione ambientalista Usa, si tratta «di una politica sull’inquinamento da carbonio illecitamente debole che svuoterebbe gli standard salvavita del Clean Power Plan e non farebbe quasi nulla per combattere la crisi climatica». Sierra Club ricorda che, prima di tutto, il Clean Power Plan di Obama puntava a ridurre l’inquinamento di carbonio dalle centrali elettriche esistenti del 32%, «impedendo 90.000 attacchi di asma all’anno ed evitando 3.200 morti premature all’anno entro il 2030». La stessa Epa che oggi rottama il Clean Power Plan stimava che avrebbe apportato benefici per la salute pubblica e il clima valutabili fino a 45 miliardi di dollari all’anno, «contribuendo nel contempo alla rapida espansione delle industrie energetiche pulite a prezzi accessibili come l’energia solare, eolica». Janet Redman, direttrice della campagna di Greenpeace Usa per il clima e l’energia, ha detto che «la mossa dispotica di Trump per annullare uno dei risultati firmati dal presidente Obama è spudoratamente politica. Si tratta di un tentativo abbastanza evidente di ottenere voti con una politica arretrata che potrebbe costare caro alle vita degli americani. Il Clean Power Plan mette gli Stati Uniti sulla strada per un’aria più pulita, posti di lavoro più sicuri e di un clima vivibile. La fvolontà di Trump è chiara: è disposto a inquinare la nostra aria e minare la salute delle famiglie per interpretare la parte dell’eroe di alcuni executives dell’industria carboniera. I tentativi dell’Amministrazione di rianimare l’industria carboniera porteranno a catastrofi climatiche ancora più distruttive, malattie e decessi dovuti all’inquinamento atmosferico e con i lavoratori statunitensi esclusi […]
ASCEA. Sorpresi dal ministro a sversare in mare: diportisti indisciplinati multati dalla Guardia Costiera. Il singolare episodio è avvenuto qualche giorno fa sulla spiaggia di Ascea, nel Cilento, dove il ministro dell’Ambiente Sergio Costa ha trascorso qualche giorno di relax con la sua famiglia. Stava leggendo il giornale in spiaggia, sotto l’ombrellone, come un normale bagnante. Ma all’improvviso ha notato che il mare cambiava colore, che sull’acqua galleggiavano enormi chiazze di sapone e che a poca distanza dalla riva ormeggiavano due imbarcazioni. A questo punto non è riuscito a trattenersi. Il ministro, che vanta anche una brillante carriera nei carabinieri forestali, ha rimesso a posto il giornale, ha fotografo i diportisti incivili e ha allertato immediatamente la Guardia Costiera. “Ci sono delle imbarcazioni che sversano in mare, per favore venite a prenderli“. Dall’altro lato un militare della Capitaneria di Porto che, dopo aver chiesto le generalità del denunciante, ha inviato immediatamente sul posto un gommone veloce della Guardia Costiera. “Sono arrivati velocemente – ha raccontato il ministro – hanno identificato i responsabili e proceduto con le sanzioni previste dalla legge“. Qualcuno ha riconosciuto il ministro in costume. “Ma lei non è il ministro dell’ambiente?“ E lui con l’asciugamano sulle spalle: “Sono un cittadino che non ha girato la testa dall’altro lato. Perche questo mare è anche dei nostri figli“. Costa è un frequentatore assiduo del Cilento. Qualche giorno fa, alle 7 del mattino, fu sorpreso mentre passeggiava e raccoglieva rifiuti di plastica dalla spiaggia. Intanto continuano lungo l’intero litorale del Cilento i controlli della Guardia Costiera diretti a livello provinciale dal capitano di vascello Giuseppe Menna. Dall’inizio della stagione estiva sono centinaia i diportisti “cafoni” sanzionati per inquinamento e per navigazione sotto costa. Nella zona sono impegnati ogni giorno due motovedette e due gommoni veloci, oltre alla polizia marittima. […]
Eccoci qua, di fronte all’ennesima aggressione del paesaggio costiero sorrentino, già per altro snaturato in altri luoghi della costa nell’indifferenza delle istituzioni, se non con il loro assenso, che avrebbero dovuto tutelarlo e salvaguardarlo. Stavolta si colpisce al cuore della città che da il nome a tutta la costa: Sorrento. A essere a rischio: la valle dei Mulini o altrimenti detto il Vallone. Sorrento era originariamente attraversata da tre valli, unite tra loro in epoca romana; oltre al cosiddetto Vallone dei Mulini, che rappresentava il fulcro di questo sistema, era presente anche una valle che terminava a Marina Grande ed un’altra, coltivata ad alberi di agrumi, si inoltrava verso l’interno, sulle colline della città: queste ultime due valli sono in parte scomparse, ricolmate, per far spazio a strade ed edifici. Il Vallone dei Mulini si è originato circa trentacinquemila anni fa, quando una violenta eruzione dei Campi Flegrei ricoprì la zona che va da Punta Scutolo a Capo di Sorrento di detriti: le acque sorgive che formarono ruscelli dalla bassa portata d’acqua, chiamati Casarlano e Sant’Antonino e che si incontravano poco prima dell’inizio della valle, scavarono un solco stretto e profonda verso il mare, ovvero la Valle dei Mulini. Sorrento era unita al resto della costiera da uno stretto ponte che superava la valle: nel 1866 venne deciso di eliminare il ponte e sostituirlo con una piazza, ottenendo lo spazio necessario per la sua realizzazione, riempiendo parte della gola e ricavandone anche alcuni locali. Fu così che il Vallone dei Mulini si trovò diviso in due: da un lato, lo sbocco verso il mare, occupato poi dalla strada per il porto, dall’altra il piccolo complesso industriale che cessò di funzionare agli inizi del XX secolo, sia per la mancanza di acqua, incanalata, per motivi di ordine climatico, in quanto la totale assenza di […]
Un team internazionale di ricercatori guidato dalla svedese Chalmers tekniska högskola (Chalmers University of Technology) ha costituito la prima rete mondiale di ricerca sul negazionismo climatico basandosi sul recente studio “Cool dudes in Norway: climate change denial among conservative Norwegian men” pubblicato su Environmental Sociology, che dimostra i collegamenti tra conservatorismo, xenofobia e negazionismo climatico: la rete studierà come la crescita del nazionalismo di destra in Europa abbia contribuito a un aumento della negazione del cambiamento climatico. Gli scienziati evidenziano che «la consapevolezza scientifica dell’effetto serra e dell’influenza umana sul clima esiste da oltre tre decenni. Durante gli anni ’80, ci fu un forte movimento ambientalista e un consenso politico sulla questione, ma negli ultimi anni, il negazionismo climatico – che nega che i cambiamenti climatici sono dovuti all’influenza antropica sull’ambiente – è aumentato». Il leader del team internazionale di ricerca, Martin Hultman, che insegna scienze, tecnologia e studi ambientali alla Chalmers sottolinea che «su questo tema hanno unito le forze due gruppi potenti: l’industria estrattiva e i nazionalisti di destra, una combinazione che ha portato il dibattito attuale a un livello molto più drammatico di prima, mentre la nostra finestra di opportunità sta chiudendosi. La ricerca avviata si chiama “Why don’t we take climate change seriously? A study of climate change denial” ed esaminerà le idee e gli interessi alla base de negazionismo climatico con particolare attenzione al nazionalismo di destra, alle industrie estrattive e ai thin ktank conservatori. L’obiettivo è quello di aumentare la comprensione del negazionismo climatico e della sua influenza sul processo decisionale politico, ma anche di sensibilizzare l’opinione pubblica, i potenti, gli istituti di ricerca e l’industria», spiegano i ricercatori.. I legami del nazionalismo di destra con il negazionismo climatico sono un argomento relativamente poco affrontato, ma gli studi di Hultman e dei suoi colleghi di ricerca «mostrano le connessioni […]
La tragedia del crollo del Ponte Morandi a Genova con i suoi 43 morti, i tanti feriti, gli sfollati dalle proprie case, lascia davvero sgomenti. Adesso indaga la magistratura, che ha già dichiarato che non può essere stata una fatalità, che dovrà accertare le ragioni del crollo e le responsabilità precise di Autostrade per l’Italia, il Concessionario tenuto alla custodia ed alla manutenzione ordinaria e straordinaria del manufatto, e l’efficacia della vigilanza del Ministero per le Infrastrutture ed i Trasporti, il soggetto Concedente. Il Ministro Toninelli ha istituito una Commissione d’inchiesta presso il MIT per accertare quanto accaduto, ed il Presidente del Consiglio Conte ed il suo Governo hanno deciso di avviare la procedura per la revoca della Concessione ad Autostrade, secondo le regole fissate nella Convenzione Unica vigente per gravi inadempienze. La società concessionaria Autostrade per l’Italia (ASPI) ha annunciato la messa a disposizione di un fondo per le vittime e per gli sfollati e che rifarà il ponte autostradale sul torrente Polcevera e la ferrovia: si tratta di impegni dovuti sempre ai sensi della Convenzione Unica. Non ha senso mettere in relazione la tragedia del crollo con il progetto della nuova Gronda autostradale di Ponente, come qualcuno in modo strumentale vorrebbe fare, progetto che prevede il mantenimento del Ponte Morandi, con la maggior parte del traffico che avrebbe continuato ad attraversarlo. Bisognava intervenire in modo tempestivo per la sua manutenzione questo il problema reale, se era degradato in modo irreversibile andava rifatto, se costituiva un pericolo andava chiuso. Questa tragedia umana si è trasformata anche in una discussione pubblica sul sistema delle concessioni autostradali italiane, dove improvvisamente si “scoprono i privilegi dei Signori delle Autostrade” che non riguardano solo Autostrade per l’Italia, con i suoi 3000 km di rete in concessione. Ma riguardano anche gli altri 3500 […]
L’Unione petrolifera, ovvero l’associazione aderente a Confindustria che riunisce le principali aziende di settore operanti nel nostro Paese, ha appena diffuso i dati provvisori sui consumi segnati in Italia nei primi sette mesi del 2018: si tratta di numeri tutti col segno più. Da gennaio a fine luglio i consumi petroliferi complessivi in Italia sono stati infatti «pari a 34,9 milioni di tonnellate, con un incremento del 3,1% (+1.046.000 tonnellate) rispetto allo stesso periodo del 2017». Un dato in linea con quelli relativi alla domanda di carburanti: nello stesso periodo abbiamo consumato il 10,3% in più di carboturbo (il carburante per gli aerei) e 18,2 milioni di tonnellate di benzina+gasolio, con un incremento del 2,1% (+372.000 tonnellate); a crescere di più – in barba a ogni dieselgate – è stato proprio il consumo di gasolio (+3,1%, ovvero +415.000 tonnellate), mentre la benzina ha segnato il passo (-1,0%, cioè -43.000 tonnellate). Che il diesel continui a piacere ai consumatori italiani lo si può dedurre anche osservando la dinamica delle nuove immatricolazioni di autovetture: nei primi sette mesi del 2018 sono risultate in calo dello 0,7%, ma quelle diesel hanno coperto ben il 53,4% del totale e quelle a benzina il 33,6%, seguite a larga distanza dai modelli più ecologici: «Le auto ibride hanno coperto il 4,1% delle nuove immatricolazioni, le elettriche lo 0,2%, quelle alimentate a Gpl e a metano rispettivamente il 6,3% e il 2,4%». È necessario sottolineare che tutto questo non rappresenta una novità per il nostro Paese, ormai da anni. Anche i dati ufficiali forniti dall’Ispra mostrano da tempo una ripresa delle emissioni di CO2 italiane, trainate da una pur debole ripresa economica, con l’Enea a sottolineare un trend sempre meno in linea con gli obiettivi climatici di lungo periodo. Come spiega l’ex ministro dell’Ambiente Edo Ronchi, intervenendo sulle pagine della Fondazione per lo sviluppo sostenibile da lui […]