Trovato l’accordo sull’Ilva, ora su lavoro e ambiente è il momento della concretezza

 

Dopo una notte di tensione e oltre 18 ore di trattative si è arrivato all’accordo definitivo su Ilva, dove sono apposte le firme dei commissari, di Arcelor Mittal e dei sindacati (che sottoporranno il testo a un referendum tra i lavoratori).

Il ministro dello Sviluppo economico Luigi Di Maio l’ha definito come «il migliore possibile nelle peggiori condizioni possibili», ma ai lavoratori interessa poco la propaganda politica sulla propria pelle.

«Non mi frega nulla di chi si prende o non riconosce meriti. 

Siamo abituati a dare il ciuccio a chi gli basta», dichiara laconicamente Marco Bentivogli, il segretario generale della Federazione italiana metalmeccanici Fim-Cisl.

Conta di più il fatto che dopo una vertenza infinita migliaia di lavoratori non finiranno a casa, e che sulla tutela ambientale si potrà lavorare con un indirizzo politico e un’azienda nel pieno delle sue funzioni: senza, a Taranto sarebbe rimasta solo la certezza della disoccupazione e l’ingombrante presenza dell’acciaieria più grande d’Europa da bonificare (ma senza avere le risorse per farlo).

Per il vicepremier Di Maio al termine dell’estenuante trattativa sono emersi «buoni risultati.

Il primo è che tutti gli operai saranno assunti con l’articolo 18, dunque il Jobs act non entra in fabbrica (ma lo stesso era previsto nello schema di accordo realizzato con il precedente ministro, Carlo Calendandr).

Il numero due, che si arriva a 10.700 assunti senza esuberi: vuol dire che tutti quelli che non riusciranno a esser coinvolti nelle procedure di esodo e nelle altre collocazioni che abbiamo individuato riceveranno una proposta di lavoro da Arcelor Mittal».

La precedente piattaforma, come ricorda invece la senatrice Teresa Bellanova (ex Mise), prevedeva «da subito 10mila lavoratori assunti da Arcelor Mittal cui venivano garantiti i diritti economici e normativi acquisiti inclusa l’anzianità di servizio e l’articolo 18, e almeno ulteriori 1.500 a tempo pieno assunti da una società costituita con la partecipazione di Invitalia.

Ovvero 11mila 500 lavoratori.

Contemplava strumenti per gli esodi incentivati comprese 100mila euro a lavoratore oltre alla cassa integrazione fino al 2023 e l’impegno di Arcelor Mittal a supportare il perseguimento della stabilità occupazionale per tutti i dipendenti Ilva».

In ogni caso il sindacato – discriminante decisiva – si mostra soddisfatto dell’accordo oggi raggiunto: «ArcelorMittal ha accolto molte delle condizioni poste dalle Fiom-Cgil, affermano la segretaria generale della Fiom, Francesca Re David e il segretario nazionale della Cgil Maurizio Landini.

Per quanto riguarda l’occupazione si parte da 10.700 lavoratori assunti subito, che corrisponde al numero delle persone impiegate attualmente negli stabilimenti.

Una soluzione che prevede inoltre l’impegno di assumere tutti gli altri fino al 2023 senza nessuna penalizzazione sul salario e sui diritti, compreso l’articolo 18, come abbiamo chiesto fin dall’inizio della trattativa. Contemporaneamente partirà anche un piano di incentivi alle uscite volontarie».

Poi c’è il tema ambientale.

«Abbiamo introdotto delle migliorie, abbiamo fatto – secondo il ministro Di Maio – quel che si poteva.

Delle migliorie al Piano ambientale che prevedono termini intermedi di realizzazione di alcuni interventi, e quei termini intermedi riguardano anche il passaggio da 6 a 8 milioni di tonnellate (annue di acciaio, ndr) di produzione, che non potrà essere automatico ma che passerà da una certificazione da presentare al ministero dell’Ambiente, in cui bisognerà dimostrare che non si aumenterà il livello di emissioni».

La Cgil concorda sul fatto che «sono stati apportati miglioramenti importanti al piano ambientale che portano all’accelerazione delle coperture dei parchi e a porre un limite fortissimo alle emissioni inquinanti», ma offre cifre ben diverse per quanto riguarda l’ammontare della produzione: «ArcelorMittal ha l’obiettivo di produrre 9 milioni e mezzo di tonnellate di acciaio, e lo dovrà fare nel rispetto dell’ambiente, facendo tutte le rilevazioni necessarie alla valutazione del danno sanitario a tutela della salute dei cittadini di Taranto».

Molto dipenderà dal tipo di ciclo di produzione che verrà effettivamente impiegato, per misurarne concretamente gli impatti ambientali: la recente richiesta di Legambiente in merito era quella di procedere alla Valutazione integrata di impatto ambientale e sanitario riferita alla massima capacità produttiva realizzabile, pari a circa 10 milioni di tonnellate, confermando però al contempo la necessità di realizzare un’area a caldo che non ecceda il limite di 6 milioni di tonnellate annue nel caso in cui rimanga l’impostazione per un ciclo integrale basato sul carbone, ovvero l’attuale tecnologia produttiva.

Quello di oggi è dunque un punto d’inizio per l’acciaieria e la città di Taranto, non uno d’arrivo.

«Adesso pensiamo a Taranto e ai tarantini, che dipendono in questo momento dal destino dell’Ilva ma dovranno sempre meno dipendere dal destino di una sola azienda», ha concluso in proposito il ministro Di Maio, certamente consapevole del fatto che il M5S ha compiuto una giravolta a 360° rispetto a quanto promesso al suo elettorato sull’acciaieria di Taranto.

Questa (forse) è l’ora del pragmatismo, dove ambiente, lavoro e salute non dovranno più essere posti in contrapposizione per fini di propaganda, ma crescere insieme.

«Una grande giornata per Ilva, per l’industria italiana e per Taranto – chiosa l’ex ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda – Finalmente possono partire gli investimenti ambientali e industriali. In attesa di conoscere i dettagli dell’accordo, complimenti ad aziende e sindacati e complimenti, non formali, al ministro Luigi Di Maio che ha saputo cambiare idea e finalmente imboccare la strada giusta».

 

(Articolo di Luca Aterini, pubblicato con questo titolo il 6 settembre 2018 sul sito online “greenreport.it”)

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