Siberia in fiamme: roghi mai così distruttivi per suolo e clima

 

QUELLO che sta accadendo sulla linea del Circolo polare artico sta innescando una spirale distruttiva alla quale l’uomo non ha mai assistito.

Non in tempi storici.

Gli incendi, soprattutto in Siberia, ma anche (seppur in misura minore) in Canada, Groenlandia e Alaska, imperversano da almeno due mesi.

Nelle zone più settentrionali e più remote della Russia basta un fulmine ad accendere roghi che non vengono contenuti e da settimane devastano vastissimi territori, alimentati dal vento e dalle alte temperature.

Il riscaldamento globale sta creando le condizioni per il proliferare delle fiamme e le fiamme stesse lo alimentano scaricando nell’atmosfera milioni di tonnellate di CO2, riscaldando ancora di più l’Artico, in un circolo vizioso che alimenta il climate change.

Tutto questo sta accadendo in una zona che nasconde una bomba climatica a orologeria pronta a esplodere.

Anche nelle regioni solitamente più fredde della Russia, le temperature massime sono arrivate fino a 30 gradi centigradi.

La stima al 30 luglio segnala più di 3,2 milioni di ettari preda delle fiamme, soprattutto nella Jacuzia, la vasta regione russa nella Siberia nordorientale, e a Krasnoyarsk e Irkutsk.

Una superficie paragonabile al Belgio.

E in meno di due mesi gli incendi che contornano il Circolo Polare artico hanno emesso anidride carbonica (il gas serra “per eccellenza”) per 100 milioni di tonnellate, proprio come il Belgio in tutto il 2017.

Lo testimoniano anche le immagini dei satelliti della costellazione europea Copernicus Sentinel diffuse dall’Agenzia spaziale europea.

Spegnere le fiamme non conviene

La prima difficoltà che stanno avendo le autorità russe è la distanza degli incendi, spesso a migliaia di chilometri dalle principali città, aspetto che rende ‘antieconomico’ raggiungerli per spegnerli.

Così vengono solamente monitorati.

Per stessa ammissione del governo, non è conveniente ancora spostare personale in massa, perché le fiamme non minacciano centri abitati.

Il fumo però viaggia veloce, spinto dalle correnti, così anche il sole nelle città è velato dalle nubi grigie che arrivano da lontano.

Come a Krasnoyarsk, la terza città più grande della Siberia, dove gli abitanti comincino a respirarle.

Anche per questo, secondo quanto riporta il sito del governo russo, è stato dichiarato lo stato di emergenza in almeno cinque regioni: “La situazione più difficile è nella regione di Irkutsk, nel territorio di Krasnoyarsk, nella Repubblica di Sakha (Yakutia) e in Buriazia” ha dichiarato Dmitry Nikolaevich Kobylkin, ministro delle Risorse naturali e dell’ambiente della Federazione Russa.

Per far fronte alla situazione, sono stati inviati aeroplani, elicotteri e paracadutato personale per tentare di contenere le fiamme.

Uno sforzo che finora non sembra dare risultati.

L’intervento del governo è al centro delle polemiche sui social network, dopo che lo stesso Kobylkin ha dichiarato che “gli incendi sono fenomeni naturali comuni e combatterli è senza senso; a nessuno viene in mente di affondare un iceberg per rendere più tiepida la temperatura in inverno“.

Online gli hashtag #SalvateLaSiberia e #LaSiberiaBrucia sono diventati gli slogan della protesta.

La spirale del climate change

Ma quello degli incendi al Circolo polare non è solo un problema regionale ma sta alimentando la crisi climatica globale.

Secondo la World meteorological organization (Wmo) le foreste boreali stanno bruciando a un ritmo 

mai visto da 10.000 anni a questa parte.

Le fiamme si spingono sempre più a nord, ingoiando anche gli ettari di tundra, vegetazione bassa, resa sempre più secca dal global warming e dalla siccità.

In queste regioni il clima da anni è destabilizzato, il vortice polare è debole e le incursioni di aria calda fanno innalzare le temperature anche 10 o 20 gradi in più rispetto alla media.

Secondo Greenpeace Russia, quest’anno sono andati in fumo 12 milioni di ettari in queste regioni e riducendo la capacità della foresta di assorbire l’anidride carbonica.

E c’è l’ulteriore problema della fuliggine che cade sul ghiaccio o sulla neve favorendone lo scioglimento perché, scurendo la superficie, ne riduce la riflettività e intrappola più calore“, ha spiegato l’Organizzazione meteorologica mondiale all’Afp.

È il meccanismo associato al global warming che più preoccupa, perché si autoalimenta: “Il Polo Nord è una delle regioni più sensibili del globo – sottolinea Gianmaria Sannino, responsabile del Laboratorio di modellistica climatica dell’Enea – qui la differenza sostanziale è il calore.

La temperatura più alta fa sciogliere più ghiaccio rispetto agli anni precedenti.

Ghiaccio che non fa in tempo a essere sostituito da quello nuovo durante l’inverno.

E libera vaste zone di oceano che, essendo più scuro, assorbe più calore dai raggi solari rispetto alla superficie bianca, che invece lo riflette verso lo spazio“.

Questo processo aumenta anche la temperatura del mare, che scioglie più ghiaccio. E si ricomincia.

I gas serra nel permafrost

Le regioni attorno al Circolo polare artico sono considerate, da molti climatologi, una bomba a orologeria.

Anche il permafrost (letteralmente: gelo permanente), il terreno ghiacciato caratteristico di queste latitudini, si sta sciogliendo a causa dell’aumento delle temperature e, ora, anche degli incendi senza precedenti. Intrappolati nel permafrost ci sono miliardi di tonnellate di gas serra (come il metano) che potrebbero essere liberati e scaldare ancora di più il pianeta. 

Secondo uno 

studio del Cnr pubblicato nel 2016, questo ‘gigante dormiente’ nasconde 1.400-1.700 miliardi di tonnellate di carbonio equivalente che potrebbero riversarsi in atmosfera nel corso dei prossimi due secoli sotto forma di CO2 o metano.

Per fare un confronto, ogni anno le emissioni dell’uomo si aggirano attorno ai dieci miliardi di tonnellate di carbonio equivalente.

E come se questo non bastasse, si teme che dal permafrost che si scioglie, accanto a carcasse di mammuth e tigri dai denti a sciabola, si 

risveglino antichi virus risalenti all’era glaciale.

 

(Articolo di Matteo Marini, pubblicato con questo titolo il 31 luglio 2019 sul sito online del quotidiano “la Repubblica”)

 

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