Clima, i trasporti marittimi europei inquinano come 20 Paesi dell’Ue. Ma Bruxelles garantisce 24 miliardi per non tassare il loro carburante

 

Ogni anno i trasporti marittimi europei liberano 140 milioni di tonnellate di CO2 nell’aria.

Un contributo negativo al cambiamento climatico pari a quello dell’economia di ciascuno dei 20 Paesi europei minori e che secondo le stime di sviluppo del settore dovrebbe persino peggiorare, con una crescita di circa 33 milioni di tonnellate all’anno.

Eppure, nonostante tale situazione sia nota da tempo, l’Unione Europea continua a mantenere in vigore la sua Energy Taxation Directive, che all’articolo 14 vieta espressamente ai paesi membri di tassare i carburanti impiegati nel trasporto marittimo.

Una distorsione, questa, che secondo l’ultimo studio dell’agenzia UE Transport&Environment garantisce al settore un “sussidio di fatto” di 24 miliardi di euro all’anno.

Per capirsi, più o meno il volume di denaro che il Fondo Europeo Agricolo di Sviluppo Rurale fa arrivare a sostegno delle colture locali, ogni anno.

La Commissione Europea ha da tempo in cantiere una riforma per mutare questa situazione paradossale e ha indicato l’attuale esenzione di cui godono i carburanti per il trasporto marittimo “in netto contrasto con gli obiettivi ambientali dell’Unione”.

Ma per cambiare l’Energy Taxation Directive serve l’unanimità dei paesi membri e difficilmente gli Stati ad oggi più “generosi” verso il settore (Olanda, Belgio, Spagna, l’uscente Regno Unito e l’Italia) appoggerebbero l’iniziativa.

Anche per questo Ursula Von der Leyen, la nuova Presidente della Commissione Europea, aveva chiarito la sua posizione a riguardo già nel proprio documento programmatico, impegnandosi ad un obiettivo politicamente più mite: estendere al settore marittimo l’Emission Trading System (ETS) – il mercato delle emissioni, attivo per tutti gli altri settori da ben quattordici anni -, unico contributo richiesto al mondo dello shipping UE a quel piano per il Green Deal Europeo che Von der Leyen aveva previsto di presentare entro i primi 100 giorni del suo mandato, ancora non pervenuto.

Secondo lo studio di Trasport&Environment, l’ETS applicato ai trasporti via mare genererebbe fino a 7,2 miliardi l’anno di introiti, destinabili ad esempio ad incentivi per convertire le flotte all’alimentazione elettrica (unica soluzione ad emissioni zero), e avrebbe un impatto pressoché nullo sulle tasche della cittadinanza a livello di prezzo d’acquisto dei beni trasportati.

Un esempio?

Un litro di diesel che dagli Stati Uniti arriva in Italia dopo 8575 km nelle cisterne di una petroliera porta con sé un carico di CO2 emessa pari a 24 g, equivalente ad un costo nel sistema ETS di solo 0,12 centesimi di euro, che finirebbero in conto all’utente finale con un aumento massimo dello 0,08% del prezzo finale del gasolio preso alla pompa.

Marginale quindi se si considera la possibilità di evitare o quantomeno contenere così le gravi conseguenze del riscaldamento climatico.

Tuttavia nonostante la ragionevolezza dell’operazione – contributo operativo minimo del mondo dello shipping all’obiettivo dell’Unione di ridurre del 40% le proprie emissioni di CO2 entro il 2030 e puntare a divenire “carbon neutral” nel 2050 – anche far passare tale semplice estensione dell’ETS al settore marittimo europeo non pare un risultato scontato a livello politico, soprattutto in tempi brevi.

Il settore infatti sta già vivendo con affanno gli adeguamenti imposti dalla rivoluzione del Sulphur Cap stabilito dall’International Maritime Organisation (IMO), che obbliga tutte le navi all’uso di combustibili con un tenore massimo di zolfo del 0,5% – sette volte meno il limite attuale – dal 1 gennaio 2020.

Entro l’inizio del nuovo anno quindi gli armatori dovranno aver adeguato le loro intere flotte a questa novità, con costi notevoli.

Alcuni hanno colto l’occasione per acquisire navi che usano un carburante meno inquinante, il gas naturale liquido (LNG), o addirittura soluzioni elettriche, altri hanno dotato i propri mezzi di impianti di abbattimento delle emissioni sulfuree (scrubber) nell’idea che il vecchio combustibile continuerà comunque a girare, e altri ancora hanno lavorato sui motori per renderli compatibili al nuovo carburante con livelli di zolfo sotto soglia.

Carburante che dovrebbe costare di più del precedente.

Difficile ipotizzare che un settore così abituato a condizioni fiscali favorevoli, detassato e sovvenzionato, con sempre meno player e sempre più indebitati, possa accettare in tempi brevi qualsiasi altra novità strutturale.

Basti pensare che anche solo la piccola diminuzione obbligatoria del livello di zolfo nel carburante è arrivata dopo ben undici anni di studi scientifici che collegavano la mortalità prematura proprio all’inquinamento aereo prodotto dalle mondo marittimo.

L’ultimo studio pubblicato su Nature nel 2018 gli attribuisce, per intendersi, 400mila decessi prematuri per cancro al fegato e patologie cardiovascolari e 14 milioni di casi di asma infantile l’anno.

Chissà come e se la politica europea riuscirà a imporre al settore marittimo misure di reale contrasto al cambiamento climatico.

 

(Articolo di Francesco Sanna, pubblicato con questo titolo il 21 ottobre 2019 sul sito online “Ambiente & Veleni” del quotidiano “Il Fatto Quotidiano”)

 

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