Plastic tax, come funziona la tassa che punta a incentivare produzioni più green. “Ricadute sui consumatori? Le aziende assorbano i costi”

 

Un’imposta di un euro per ogni chilo di plastica monouso prodotta.

Per contribuire alla diminuzione dell’inquinamento da plastiche e microplastiche, uno dei più pericolosi per l’ambiente, in particolare per i mari.

La plastic tax prevista dalla legge di Bilancio, ora oggetto di vari emendamenti anche di maggioranza che puntano a limitarne l’applicazione, nella forma attuale darebbe un gettito di 1 miliardo nel 2020 e 2,2 miliardi nel 2021.

Secondo il presidente di Legambiente, Stefano Ciafani, le polemiche sulla misura sono “incomprensibili” se si considera che anche la direttiva Ue approvata a marzo si pone come obiettivo la drastica riduzione delle plastiche monouso.

E l’Italia si candida a fare da apripista e da esempio: “Da quando la plastic tax è stata annunciata mi hanno chiamato da Portogallo, Germania, Francia e Russia per capirne meglio il funzionamento”, racconta Enzo Favoino, coordinatore scientifico di Zero Waste Europa.

E una tassa può contribuire a ridurre tutta la plastica di cui si può facilmente fare a meno, come quella usata per i tappi delle bottiglie di vetro o per la chiusura delle confezioni del latte o dei succhi.

La plastic tax colpirà dal prossimo 1 aprile – salvo modifiche preannunciate in queste ore – la plastica contenuta nei manufatti con singolo impiego, in sigla Macsi.

In pratica tutti gli imballaggi in plastica.

Quindi saranno tassati innanzitutto i prodotti monouso che vanno sotto la categoria “imballaggi primari“, come le bottigliette, i sacchetti, le vaschette in polietilene, le buste dell’insalata, ma anche il contenitore del latte o quelli per i detersivi.

Ma anche quelli “secondari”, cioè i dispositivi realizzati “con l’impiego, anche parziale, di materie plastiche che consentono la chiusura, la commercializzazione o la presentazione” dei Macsi “o dei manufatti costituiti interamente da materiali diversi dalle stesse materie plastiche”: si parla quindi, ad esempio, della confezione che avvolge le bottiglie d’acqua e delle etichette che accompagnano molti alimenti.

Tassati, infine, anche gli “imballaggi terziari”, come il packaging per consegnare gli elettrodomestici, le pellicole in plastica estendibile, il polistirolo.

L’imposta invece “non è dovuta sui Macsi che risultino compostabili in conformità alla norma UNI EN 13432”.

Escluse, inoltre, le siringhe, perché rientrano tra “i dispositivi medici classificati” e altri oggetti in plastica, considerati “beni durevoli”, perché riutilizzabili, come le taniche e i contenitori per oggetti.

Secondo Confindustria, la misura “non ha finalità ambientali” e andrebbe a pesare troppo sui conti delle aziende.

In realtà nella bozza è previsto, “ai fini del rafforzamento e dell’accelerazione della transizione verso un’economia circolare”, un incentivo sotto forma di credito d’imposta del 10% per le spese sostenute “per l’adeguamento tecnologico finalizzato alla produzione di manufatti biodegradabili e compostabili secondo lo standard europeo” e per la formazione dei dipendenti. 

Mineracqua, l’associazione di categoria delle aziende di imbottigliamento, dal canto suo ha paventato un aumento del 50% per il costo dell’acqua in bottiglie di plastica.

Per Legambiente però le imprese potrebbero tranquillamente riassorbire i costi.

Le aziende che imbottigliano l’acqua pagano alle regioni canoni ridicoli – spiega Ciafani – e poi vendono le bottiglie a prezzi altissimi. Per intenderci, il massimo del canone versato in Italia è di 2 euro per mille litri. 

Quindi potrebbero tranquillamente riassorbire la spesa della plastic tax, senza che questa ricada sul cittadino”.

In ogni caso, anche se il costo alla fine ricadesse sul consumatore, che potrebbe comunque scegliere di acquistare acque con imballaggi già in linea con le direttive, l’impatto sarebbe minimo. 

Come ha ricordato il ministro per il sud, Giuseppe Provenzano, l’aumento sarebbe di “quattro o cinque centesimi a bottiglia”.

In media, infatti, una bottiglia d’acqua da un litro e mezzo pesa circa 40 grammi.

Essendo quindi un euro di tassa per ogni chilogrammo di plastica, il costo, alla fine, sarebbe di 4 centesimi per una bottiglia.

In pratica, se si considera una bottiglia d’acqua al giorno a testa, ogni persona pagherebbe 28 centesimi a settimana, cioè 14 euro l’anno.

Per gli ambientalisti la tassa è “una sferzata necessaria per arginare il problema dell’inquinamento da plastiche”, che – sottolineano Ciafani e Favoino – “ha ripercussioni già sull’oggi, non solo sul domani”.

Ogni anno in mare finiscono tra gli 8 e i 12 milioni di tonnellate di plastica. Pari a un camion al minuto – ricorda Favoino – Un accumulo continuo che ci ha portati a un totale di 140 milioni di tonnellate”.

L’imposta, secondo il presidente di Legambiente, non va depotenziata, anzi: “Nella forma attuale colpirebbe solo 2 milioni di tonnellate di plastica (quella usata per gli imballaggi), sui 6 milioni di tonnellate prodotti in Italia ogni anno. Andrebbe estesa agli altri 4 milioni di tonnellate utilizzati in edilizia, nell’automotive o per realizzare elettrodomestici”.

Inoltre, ipotizza Favoino, “se si andasse a tassare la plastica all’origine, applicando l’imposta nella fase della consegna del polimero vergine a chi lo trasforma in imballaggio, i produttori indirizzerebbero le proprie scelte verso forme di progettazione che privilegiano altri materiali, come il polimero riciclato, o semplicemente diminuirebbero il consumoriducendo il peso dell’imballo. Il costo quindi non ricadrebbe sul cittadino, o sarebbe molto più basso”.

In compenso per l’associazione ambientalista le esenzioni già previste per materiali compostabili o i prodotti usa e getta come le siringhe andrebbero estese anche “agli stabilimenti che producono oggetti in plastica riciclata”, attualmente invece inclusi tra i soggetti tassabili.

E già lo prevede un emendamento del Pd presentato in commissione Bilancio.

 “La ‘tassa’ inserisce perfettamente l’Italia nella roadmap dell’Unione europea – concordano Ciafani e Favoino – La direttiva approvata a marzo, infatti, dice che gli Stati membri possono utilizzare la leva fiscale per arginare il problema”.

Ma soprattutto fa dell’Italia un modello per altre nazioni, secondo il coordinatore scientifico di Zero Waste.

Sono pochi infatti, finora, i Paesi con misure ad hoc: in Finlandia e Norvegia paga chi non riutilizza o ricicla, in Danimarca c’è la tassa verde e il vuoto a rendere e in Germania vige da anni il sistema del deposito su cauzione.

Favoino ricorda anche il ruolo trainante dell’Unione europea ai tavoli mondiali sull’ambiente.

Faccio l’esempio dei prodotti di consumo immessi sul mercato dalle grandi aziende, come UnileverCoca ColaNestlè. In Europa si adeguano alle normative, ma non lo fanno in altri mercati – spiega – Per esempio in quello asiatico sponsorizzano delle confezioni, monouso e monoporzione, fatte appositamente per essere disperse. Con un grave problema per l’ambiente”. Il ruolo di Bruxelles e di Roma in questo contesto è quindi centrale “per ispirare misure analoghe nel mondo”.

(Articolo di Martina Milone, pubblicato con questo titolo il 18 novembre 2019 sul sito online “Ambiente & Veleni” del quotidiano “Il fatto Quotidiano”)

 

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