Il clima visto dal basso, tra grandi ambizioni e molte furbizie

 

Alle soglie del 2020 si chiude a Madrid la Cop 25 e Claire O’Neill, la presidente designata della Cop 26 (prossimo novembre a Glasgow) parla di un futuro «anno dell’azione» contro l’emergenza climatica, durante il quale i vari paesi dovrebbero rilanciare i loro impegni nazionali per l’attuazione dell’accordo di Parigi (2015) finalizzato a limitare «ben al di sotto dei 2° C» le emissioni globali di gas serra, invertendo decisamente il trend.

Per dirla con il governo del Bhutan, gli impegni nazionali dei paesi devono essere in linea con il limite massimo di 1,5° C di aumento della temperatura, altrimenti è tutto inutile.

La presidenza cilena della Cop madrilena, chiamata «dell’ambizione» ha annunciato che 73 paesi intendono sottoporre piani d’azione (contributi nazionali volontari, Ndc) più avanzati – la Danimarca addirittura pensa al 70% di riduzione delle emissioni entro il 2030 – e che quasi 400 città, 14 regioni, 800 imprese e 11 investitori lavorano per l’obiettivo zero emissioni nette entro il 2050.

Ma dentro e fuori gli spazi fieristici che hanno ospitato la Conferenza, il malcontento per il «fallimento negoziale» si è fatto forte di un’alleanza fra i movimenti per la giustizia climatica, i movimenti indigeni, le comunità di frontiera e i giovani.

Oltre ai flashmob e ai sit-it, ci sono state manifestazioni – successive espulsioni – nella sala delle conferenze perché «la Cop 25 non ascolta i popoli né il pianeta».

Dunque sull’almanacco 2020 bisogna essere leopardianamente pessimisti, dopo Madrid?

Per Stefano Caserini, docente di mitigazione dei cambiamenti climatici al Politecnico di Milano e consigliere dell’Italian Climate Network (un gruppo di associazioni ed esperti), la nota positiva è che «il negoziato climatico ormai abbraccia davvero tutti gli aspetti di questa epocale, inevitabile transizione.

Un tempo ci si accapigliava sulle percentuali di riduzione, adesso tutti, anche l’industria, discutono dell’obiettivo di zero emissioni nette in tre decenni.

Certo per ora non siamo indirizzati sotto i due gradi, piuttosto intorno ai tre.

Ma ad esempio l’Europa – il cui impegno di riduzione era insufficiente – si rende ora conto che la svolta serve anche per aumentare il benessere, per più posti di lavoro, per assumere la leadership tecnologica in settori chiave e che hanno un futuro.

Occorre del resto che si mobilitino i capitali privati; investimenti che ora vanno nel fossile o anche nelle armi potrebbero spostarsi sulle rinnovabili, sull’efficienza».

Ma contestando il «greenwhashing», le «false soluzioni», il «capitalismo verde», i movimenti per la giustizia climatica presenti alla Cumbre social por el clima (evento parallelo e antagonista alla Cop 25, organizzato soprattutto grazie all’enorme impegno di Accion Ecologica), hanno discusso in decine di seminari soluzioni e proposte «dalla base e di giustizia», mentre «“zero emissioni nette” può essere solo uno slogan alla di moda», come avverte il bollettino giornaliero Eco del Climate Action Network (Can), 1.300 membri in 100 paesi.

Sul tavolo negoziale della Cop 25 sono rimasti temi aperti.

Rinviata al 2020 una decisione di maggior dettaglio sui temi della trasparenza, ovvero le regole per il calcolo e il reporting del quantitativo di emissioni e anche degli impegni finanziari assunti.

Un punto molto discusso, spiega il docente, sono stati i crediti di carbonio, «meccanismi di flessibilità previsti dall’articolo 6 dell’accordo di Parigi, con i quali si cerca di disciplinare la possibilità che uno Stato contabilizzi come proprie le riduzioni delle emissioni che finanzia sul territorio di un altro Stato.

Ma occorrono regole, per esempio per evitare il doppio conteggio».

E, insiste l’osservatorio Carbon Watch, «va evitata la vergogna del passato: meccanismi di mercato usati a basso costo dai paesi ricchi con progetti discutibili così da scansare vere riduzioni delle emissioni a casa propria».

Scontro Nord-Sud, poi, sul meccanismo detto «Loss & Damage» varato alla Cop 24 di Katowice a favore dei paesi e delle aree colpiti da disastri naturali.

Come ha spiegato l’Icn, «gli Stati più colpiti chiedono impegni sufficienti, almeno 50 miliardi di dollari all’anno in più entro il 2022» ma il Nord fa orecchie da mercante.

Eppure l’emergenza climatica è una questione di etica e di diritti, considerando le responsabilità storiche e quelle attuali; si pensi anche al divario fra le emissioni individuali pro capite.

Diversi paesi del Sud insistono affinché il Nord recuperi i ritardi negli impegni pre-2020.

Conclude Caserini: «C’è nel mondo un’enorme richiesta di accesso di base all’energia… noi non ce ne rendiamo conto, siamo circondati dallo spreco.

La sfida è che il bisogno sia soddisfatto attuando parallelamente una riduzione globale delle emissioni.

Stiamo ancora bruciando fossili, con livelli di efficienza spesso ridicoli nel settore dei trasporti.

C’è molto da fare

(Articolo di Marinella Correggia, pubblicato con questo titolo il 14 dicembre 2019 sul sito online del quotidiano “il manifesto”)

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Vas