La fabbrica di plastica e l’ambiente da salvare: “Noi operai non siamo i killer del pianeta”

 

Voghera (Pavia) – Il male assoluto si nasconde dietro l’immagine di un tiramisù.

La foto del dolce che ogni famiglia italiana ha preparato almeno una volta è stata incollata su centomila coperchi di polipropilene: andranno a chiudere altrettante vaschette della stessa sostanza.

Il polipropilene valse il premio Nobel per la chimica all’italiano Giulio Natta.

Ma oggi è il male assoluto.

Così gli operai della Piberplast di Voghera hanno deciso di chiamare il polimero che finora ha garantito i loro stipendi.

Il polipropilene, per chi non lo sapesse, è la plastica.

La comunissima plastica che custodisce il mascarpone con il quale preparare il tiramisù, che isola dal caldo i bonbon di gelato rivestiti di cioccolato, che allunga nel tempo la freschezza della mozzarella. La stessa plastica che in quantità esagerate finisce nei mari e che, per questo, è stata messa all’indice.

Siamo tutti Greta Thunberg, la pensiamo come lei“, premette Ciro Giove, operaio della Piberplast.

Da 33 anni“, puntualizza.

Il mondo è ammalato e bisogna salvarlo — argomenta — ma bisogna trovare la giusta strategia per intervenire. Altrimenti rischiamo di aggravare i problemi, invece di risolverli“.

Per 32 anni, Ciro è andato orgoglioso del suo lavoro, di quei milioni di scatolette in polipropilene che servono a proteggere gli alimenti.

Ma al trentatreesimo anno il suo mondo è cambiato radicalmente.

La plastica è diventata il male assoluto.

Ho una figlia di diciotto anni, Federica.

L’altro giorno mi ha detto: ‘Papà tu lavori in una fabbrica che produce oggetti di plastica, devo vergognarmi?‘”.

A Ciro è quasi crollato il pavimento sotto i piedi.

Poi ha reagito aggrappandosi alla soluzione indicata ormai come un mantra da quanti lavorano nel settore e oggi hanno paura di perdere il lavoro.

Federica — le ho detto — la stessa plastica utilizzata all’infinito non inquina.

Bisogna riciclarla il più possibile e produrne il meno possibile“.

Salvare il mondo ha un costo.

Ma qualcuno è destinato a pagare più degli altri.

In Lombardia il comparto della plastica conta oltre 400 aziende che garantiscono uno stipendio a 15 mila persone e producono un fatturato di 2,9 miliardi di euro.

Fino a qualche giorno fa, padroni e operai erano pronti ad alzare le barricate contro la plastic tax che il governo aveva elaborato.

Ma dopo lo slittamento al 1° luglio e la doppia riduzione dell’importo richiesto (un euro al chilogrammo, poi 50 centesimi infine l’ulteriore diminuzione dell’85%) la protesta è rientrata.

Per ora.

Il fisco, in ogni caso, è solo il secondo e meno grave dei problemi.

La questione principale riguarda il futuro della plastica, delle fabbriche che la utilizzano e dei lavoratori che grazie a lei danno da mangiare ai loro figli.

La finanza, i grandi investitori, ormai ci guardano con sospetto“, racconta Marco Bergaglio, titolare della Piberplast di Voghera che conta 600 dipendenti, ha cinque stabilimenti e fattura 100 milioni di euro all’anno.

Certo, la sua preoccupazione non è immotivata.

Ma è ancora più fondata l’ansia dell’intera popolazione mondiale per colpa dell’inquinamento causato dalla plastica che sta distruggendo l’ecosistema marino.

La plastica inquina perché viene gettata in mare, altrimenti non inquinerebbe“, è la premessa di Bergaglio.

Se non venisse abbandonata ovunque potrebbe essere riciclata all’infinito“.

Attualmente però le industrie italiane ne riciclano appena il 15 per cento e in dieci anni, se tutto va bene, la percentuale sarà doppia.

Nel settore alimentare come il mio — sottolinea Bergaglio — per ovvie ragioni di sicurezza igienica, possiamo riciclare solo una parte della plastica.

Ma in altri settori, come la componentistica per automobili il riciclo può essere del cento per cento“.
Un odore acre che graffia la gola ti accoglie all’ingresso dello stabilimento di Voghera.

Macchinario dopo macchinario, in cento metri ti rendi conto di quanta plastica venga utilizzata per garantire i prodotti che finiscono prima sugli scaffali dei supermercati e poi dentro i nostri frigoriferi.

La prima, rumorosa, apparecchiatura partorisce le vaschette per il mascarpone.

Senza questa plastica qui potremmo scordarci di portare a casa tanti prodotti“, osserva l’operaia Donatella Montagna.

Dieci metri più avanti è la volta delle confezioni per i bonbon di gelato.

Centinaia di scatole cilindriche rosse che d’estate invadono gli stabilimenti balneari.

Tutta roba riciclabile“, puntualizza il proprietario della Piberplast.

Il problema, purtroppo, è che troppo spesso i rifiuti di plastica finiscono in mare.

Il Wwf ha calcolato che ogni anno 570 mila tonnellate di plastica finiscono nel Mediterraneo, è come se venissero gettate in acqua 33 mila bottigliette al minuto.

Bisogna fermare questo scempio, o no?

Arrivati dinanzi alla macchina che impila le vaschette per la mozzarella, arriva la risposta di Monica Grazioli, in azienda dal 2002.

La colpa è dell’uomo incivile, non della plastica.

Bisogna punire chi inquina e promuovere una grande campagna per il riciclo.

Devono farlo i governi, gli stati, l’Unione europea.

Ne parlo tanto, fuori da qui.

Mi è capitato anche di litigare con qualcuno, come l’altro giorno in palestra“.

Margherita Forenza, alla Piberplast da 25 anni, scuote il capo coperto dalla cuffietta bianca.

Siamo sotto attacco — dice — Ma come si fa a non capire che la colpa è tutta dell’uomo?“.

All’improvviso di crea un capannello di operai.

Nonostante il rumore che dimezza la percezione delle voci, arriva chiaro il proposito di Michele Salvadeo: “Ho insegnato ai miei figli la raccolta differenziata e li ho invitati a fare altrettanto con i loro compagni di scuola.

Se gli adulti di oggi sono incivili lottiamo perché non lo siano gli adulti di domani“.
Riciclare, certo.

Ma anche convertire, usare materiali non inquinanti.

Perché no?

Il materiale compostabile — dice il titolare dell’azienda — a livello mondiale copre il 10 per cento della produzione.

È contingentato perché arriva dalle coltivazioni agricole.

Per portarlo al cento per cento non avremmo nel mondo spazio a sufficienza per le coltivazioni.

E poi sono sempre rifiuti che vanno trattati a 90 grandi.

Se la balena se li mangia muore lo stesso anche se sono compostabili e non in polipropilene.

Lo ribadisco: combattiamo tutti per riciclare la plastica.

È questa la vera urgenza“.

Alfonso Siino, tre figli e trent’anni di lavoro sulle spalle, pensa alle parole dei suoi familiari nei giorni della prima protesta contro la plastic tax: “Mi han detto: ‘Vai, perché in futuro può succedere di tutto‘”.

Si ferma, deglutisce, poi riprende: “Pensa te se perdo il lavoro. Se sto a casa, cosa faccio?“.

Sulla targhetta della giacca di ogni operaio è stato scritto: “La sicurezza sul lavoro dipende anche da te“.

Invece, la sicurezza dei nostri stipendi dipende dalla civiltà di tutti gli esseri umani“.

È il loro ultimo commento prima di tornare a impilare scatolette.

Di plastica.

(Articolo di Massimo Lorello, pubblicato con questo titolo il 14 dicembre 2019 sul sito online del quotidiano “la Repubblica”)

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