L’Artico senza ghiaccio marino rende il permafrost più vulnerabile allo scongelamento

 

Il nuovo studio “Palaeoclimate evidence of vulnerable permafrost during times of low sea ice”, pubblicato su Nature e realizzato nelle grotte siberiane da un team di scienziati britannici, israeliani e russi, fornisce prove che suggeriscono che il ghiaccio marino estivo dell’Oceano Artico svolge un ruolo essenziale nella stabilizzazione del permafrost e del suo enorme stoccaggio di carbonio.

All’università di Oxford spiegano che «il permafrost è terreno che rimane congelato durante tutto l’anno; copre quasi un quarto del territorio dell’emisfero settentrionale. 

Allo stato congelato, il permafrost consente di immagazzinare grandi quantità di carbonio; circa il doppio rispetto all’atmosfera».

Ma facendo affidamento sulle sole emissioni moderne è difficile prevedere il tasso e l’estensione del futuro scongelamento del permafrost e il conseguente rilascio di CO2 nell’atmosfera.

Lo studio ha rivelato un rapporto essenziale del passato tra il ghiaccio marino estivo nell’Artico e il permafrost, una scoperta che ha significative implicazioni per il futuro.

Uno degli autori dello studio, Gideon Henderson Department of Earth sciences dell’università di Oxford e del Geological Survey di Israele, ha sottolineato: «Siamo rimasti sorpresi nello scoprire che i periodi in cui il permafrost si era sciolto in passato non coincidevano semplicemente con quelli in cui sulla Terra faceva più caldo, ma che erano molto più probabili quando l’Artico era privo di ghiaccio in estate. 

Questa scoperta sul comportamento passato del permafrost suggerisce che la prevista perdita del ghiaccio marino artico in futuro accelererà lo scioglimento del permafrost che si trova attualmente in gran parte della Siberia».

Negli ultimi anni sono state osservate significative riduzioni del ghiaccio marino artico e gli scienziati sono concordi nel dire che entro i prossimi decenni l’Artico sarà completamente libero dal ghiaccio marino estivo, cosa che probabilmente porterà ad un’accelerazione dello scongelamento del permafrost in Siberia e alla conseguente emissione di enormi quantità di carbonio.

Il nuovo studio si basa su impegnativi lavori sul campo per scoprire ed esplorare le remote grotte siberiane che custodiscono ghiaccio e permafrost e che rappresentano dei grandi registratori dei periodi in cui il permafrost in passato era assente. 

I ricercatori spiegano ancora che «stalagmiti, stalattiti e letti di pietre fluviali possono formarsi solo in presenza di acqua liquida, e quindi non quando i terreni sovrastanti sono permanentemente congelati. 

La presenza di stalagmiti nelle grotte sotto l’attuale permafrost mostra quindi i periodi in cui il permafrost era assente in passato».

Lo sviluppo di nuovi approcci per datare le stalagmiti consente anche di risalire ai periodi di assenza di permafrost nell’ultimo milione e mezzo di anni. 

I ricercatori britannici e israeliani dicono che «le stalagmiti sono cresciute in modo intermittente da 1.500.000 a 400.000 anni fa e non sono cresciute negli ultimi 400.000 anni. 

I tempi della formazione di stalagmiti, e quindi l’assenza di permafrost, non si riferiscono semplicemente alle temperature globali in passato, ma sono particolarmente più comuni quando l’Oceano Artico era libero dal ghiaccio marino estivo.

Questo studio mostra che diversi processi possono portare alla relazione tra ghiaccio marino artico e il permafrost. 

L’assenza di ghiaccio marino porta ad un aumento del trasferimento di calore e umidità dall’oceano all’atmosfera e quindi ad aria più calda trasportata via terra in Siberia. 

Il trasporto dell’umidità aumenta anche la caduta di neve sulla Siberia durante i mesi autunnali. 

Questa coltre di neve isola il terreno freddo estremo degli inverni, il che porta ad un aumento delle temperature medie annue del terreno, destabilizzando il permafrost. 

Di conseguenza, nelle regioni con maggiore copertura nevosa e isolamento, il permafrost inizierà a scongelarsi, rilasciando l’anidride carbonica che è rimasta intrappolata per millenni».

Gli autori dello studio sostengono che, se questo dovesse accadere, potrebbe rappresentare un grosso problema per i governi che stanno cercando di raggiungere emissioni nette zero entro la metà di questo secolo.

Intervistato da BBC News, Henderson conclude: «Gli sforzi per ridurre le emissioni di carbonio potrebbero dover andare oltre tale obiettivo.

Se raggiungiamo il net-zero, potrebbero esserci ancora meccanismi naturali come questo rilascio del permafrost, che emettono CO2 … quindi potremmo scoprire che dobbiamo andare sotto lo zero – da un punto di vista antropico – per stabilizzare la CO2.

La natura continuerà a spezzarsi e dovremo trovare un modo per risucchiarla di nuovo».

(Articolo pubblicato con questo titolo il 9 gennaio 2020 sul sito online “greenreport.it”)

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