Per il nuovo coronavirus non è ancora pandemia, per l’inquinamento atmosferico sì

 

Più del fumo, più della violenza, più dell’Aids, più della malaria e – naturalmente – più del nuovo coronavirus SARS-CoV-2 che in queste settimane sta seminando il panico: i danni per la salute umana legati all’aria inquinata sono tali e tanti che i dati raccolti dagli scienziati del Max Planck Institute for Chemistry e dall’University Medical Center Mainz indicano «una pandemia da inquinamento atmosferico» che provoca 8,8 milioni di morti premature l’anno.

Al confronto gli allarmi suscitati dal coronavirus impallidiscono: secondo i dati aggiornati ieri dall’Organizzazione mondiale della sanità – che per il momento non ha dichiarato “pandemia” il diffondersi del nuovo coronavirus – sono 90.893 i contagi documentati a livello globale, di cui 3.110 deceduti.

Si tratta ovvero dello 0,04% delle vittime che miete ogni anno l’inquinamento atmosferico.

Mettere a raffronto i due dati non significa sminuire i rischi legati al nuovo coronavirus, ma può essere utile per mettere l’accento su quelli legati all’inquinamento atmosferico: mentre i primi sono oggetto di constante (quando non spasmodica) attenzione da parte di opinione pubblica, media e istituzioni, i secondi rappresentano un’emergenza costante quanto sottovalutata.

Eppure, come spiegano dal Max Planck Institute for Chemistry attraverso la ricerca Loss of life expectancy from air pollution compared to other risk factors: a worldwide perspective, l’inquinamento atmosferico ha causato 8,8 milioni di morti premature in tutto il mondo nel solo 2015, il che corrisponde a una riduzione media dell’aspettativa di vita pro capite di 2,9 anni; in confronto, il fumare tabacco riduce l’aspettativa di vita in media di 2,2 anni (7,2 milioni di morti), l’Hiv/Aids di 0,7 anni (1 milione di morti), le malattie parassitarie e trasmesse da vettori, come la malaria, di 0,6 anni (600.000 morti).

«L’inquinamento atmosferico – dettaglia Jos Lelieveld, direttore del Max Planck Institute for Chemistry e primo autore dello studio – supera la malaria come causa di morte prematura di un fattore 19; supera la violenza di un fattore 17 e l’Hiv/Aids di un fattore 9.

Dato l’enorme impatto sulla salute pubblica e sulla popolazione mondiale, si potrebbe dire che i nostri risultati indicano una pandemia di inquinamento atmosferico».

Una pandemia che però non è percepita come tale, e dunque non suscita azioni adeguate di contenimento, come invece suggerirebbero i dati scientifici raccolti in materia: «Comprendiamo sempre di più che il particolato fine favorisca principalmente danni vascolari e quindi malattie come infarto, ictus, aritmia cardiaca e insufficienza cardiaca. 

È estremamente importante che l’inquinamento atmosferico sia adottato come fattore di rischio cardiovascolare», precisa Thomas Münzel, direttore del Centro di cardiologia presso l’University Medical Center Mainz e coautore dello studio.

Un allarme che riguarda da vicino l’Italia, uno degli Stati europei più colpiti dall’inquinamento atmosferico.

Nello stesso anno preso in esame dallo studio, ovvero il 2015, le concentrazioni di PM2,5 nel nostro Paese sono state responsabili di 60.600 morti premature, quelle di NO2 di altre 20.500 e quelle di O3 3.200 ancora, per un totale di 84.300 vittime legate all’inquinamento atmosferico.

Nessun altro Paese (neanche i più popolosi del nostro come Germania, Francia e Regno Unito) ha registrato più morti premature, e nonostante siano stati compiuti passi avanti i progressi sono ancora troppo pochi: i dati più recenti (2016) raccolti dall’Agenzia europea dell’ambiente mostrano che quei tre inquinanti atmosferici provocano ancora 76.200 morti premature nel nostro Paese.

Il coronavirus SARS-CoV-2, invece, secondo i dati aggiornati a ieri dal ministero della Salute ha contagiato 2.263 persone in Italia, dei quali 79 deceduti: lo 0,1% delle morti premature provocate annualmente dall’inquinamento atmosferico.

«L’esperienza del rischio ambientale – argomenta nel merito Edo Ronchi, ex ministro dell’Ambiente oggi alla guida della Fondazione per lo sviluppo sostenibile – insegna anche che raramente il livello tecnico di un rischio coincide con il livello della sua percezione da parte dell’opinione pubblica: spesso rischi tecnicamente elevati sono sottovalutati e viceversa.

Se poi passiamo alle priorità individuate dai decisori politici la forbice fra rischio e livello corrispondente di gestione spesso si allarga.

Non credo che si arriverà rapidamente  ad una percezione del rischio da coronavirus  più realistica da parte dell’opinione pubblica, a meno di un brusco cambio nella comunicazione dei media».

 

(Articolo di Luca Aterini, pubblicato con questo titolo il 4 marzo 2020 sul sito online “greenreport.it”)

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