I legami tra inquinamento atmosferico e Covid-19 non sono ancora una certezza

 

In questi giorni si parla molto di studi e ricerche riguardanti la relazione tra i superamenti dei limiti di legge delle concentrazioni delle polveri sottili e il numero di casi infetti da Covid-19.

Al riguardo si rappresenta che è un ipotesi probabile, ma non è assolutamente una certezza in quanto non sono disponibili dati scientifici.

Nel dettaglio, con il termine coronavirus si intende una famiglia di virus a RNA che possono determinare varie infezioni dal semplice raffreddore a malattie respiratorie più gravi come la SARS o la MERS.

A dicembre dello scorso anno in Cina è stato individuato un nuovo ceppo avente una somiglianza genetica del 70% circa rispetto alla SARS.

Per tale motivo questo nuovo ceppo è stato denominato SARS-COV-2.

Per quanto concerne la possibilità che l’inquinamento agevoli la diffusione del virus, si rileva che abbiamo una semplice associazione numerica, ma non un rapporto causale definito in quanto la pandemia è ancora in atto e non ci sono stime esatte su quante persone siano risultate positive al coronavirus (considerando anche le persone affette da oligosintomatologia o portatori sani).

Inoltre, non ci sono dati completi sulla mortalità per tutte le cause.

Il particolato atmosferico rappresenta l’indicatore di qualità dell’aria più associato con una serie di effetti avversi sulla salute.

Il particolato atmosferico, l’insieme delle particelle eterogenee sospese sia liquide che solide aventi dimensioni microscopiche o sub microscopiche, determina in soggetti sensibili (anziani, persone con patologie o fumatori) effetti di infiammazione e irritazione locale nel bronchi incrementando la vulnerabilità al virus.

Tuttavia occorre ricordare che gli effetti dei vari inquinanti atmosferici non dipendono solo dalle fonti emissivi ma specialmente dalle condizioni meteorologiche e dai venti.

Ed è altresì importante ribadire che tale correlazione può anche essere in parte corretta ma, al momento, non abbiamo dati certi per affermare ciò.

Una relazione che non è stata ancora evidenziata riguarda quella inerente il virus, l’utilizzo e la futura gestione delle risorse.

Ad esempio, pensando ad un azione chiave di prevenzione (ad es. il lavaggio delle mani accurato e frequente) si rileva che il consumo idropotabile è notevolmente aumentato dal 30 al 60%.

L’incremento della diffusione di dispositivi di protezione (mascherine e guanti) sta generando un incremento dei rifiuti sanitari.

Al termine della pandemia sarà necessario, quindi, incrementare il recupero e riciclo delle acque grigie e di quelle piovane.

Inoltre, sarà opportuno e necessario ammodernare tutto il ciclo della gestione dell’acqua partendo dall’infrastruttura del servizio idrico (la percentuale di acqua dispersa nella rete è ancora elevata), alla messa in sicurezza di invasi e dighe fino all’utilizzo dei rubinetti moderni con riduttore di flusso.

Per i rifiuti sanitari occorre incentivare l’economia circolare attivando un mercato delle materie prime seconde e dei prodotti realizzati con materiali provenienti dal riciclo.

(Comunicato di Ilaria Falconi, pubblicato con  questo titolo il 23 marzo 2020 sul sito online “greenreport.it”)

N.B. – Ilaria Falconi è un tecnico ISMEA presso il Ministero delle politiche agricole alimentari, forestali e del turismo, Consigliere Nazionale SIGEA (Società Italiana di Geologia Ambientale), Consigliere SIGEA (Società Italiana di Geologia Ambientale) Sez. Lazio

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