Foreste in lockdown

 

In queste settimane di impedimenti e reclusioni quel che più mi manca è la libertà di potermi abbandonare all’abbraccio di un bosco di montagna.

Certo, le piante addomesticate con cui conviviamo sono in fiore: i prugnoli, le camelie, le forsizie, gli albicocchi, i pruni, i mirabolani, i primissimi ciliegi, le azalee, le peonie.

Ma è come se questa primavera ammalata ci impedisse di gioirne, è come se il male che sta mettendo a dura prova la nostra specie avesse condizionato il piacere di godere di questi segni del risveglio, dopo un inverno non climaticamente così rigido, ma di certo lugubre e faticoso.

Anche l’acero giapponese inizia a metter fuori le foglie, mentre le rose, che a inizio febbraio lanciavano già segni di vita, sembrano essersi rallentate. Forse anche questo è un segno.

Meditare in zazen, come insegnano i maestri giapponesi, mi aiuta a placare parte delle tensioni e della negatività generale che è impossibile non percepire.

Alcuni vicini di casa che da anni abitano come se il resto del mondo fosse un rumore di sottofondo, mi dicono che per loro non è cambiato nulla, che sono abituati, e la cosa non mi pare rassicurante, e nemmeno esemplare.

Anzi.

Non provare nulla per il resto dell’umanità è abbastanza curioso, e mi chiedo quale umanità sia al centro della loro percezione, e allo stesso tempo, visto che anch’io preferisco la compagnia degli alberi a quella di tante altre persone – d’altronde ho scritto cosi tanto di Homo radix, dendrosofia e alberografie – interrogo me stesso: quale idea di umanità è al centro della mia visione?

Della mia percezione quotidiana?

Tutto è utile per riflettersi, per ragionarsi, per mettersi alla prova e magari, se se ne ha la forza, indirizzarsi lungo un sentiero più alto, più ricco, più consapevole.

Spesso mi viene in mente l’inizio di Stalker, il film di Andreij Tarkovskij, nel quale la voce recupera un passo del Lao Zi, questo misterioso lascito taoista dei millenni sfumati: «La debolezza è potenza e la forza è niente.

Quando l’uomo nasce, è debole e duttile.

Quando muore, è forte e rigido.

Così come l’albero: mentre cresce è tenero e flessibile.

E quando è duro e secco, muore.

Ciò che si è irrigidito non vincerà.»

Sono vent’anni che rifletto su questa contrapposizione, così netta, così apocalittica.

Quando mi ritrovo in mano le poesie, gli appunti, i pensieri scritti di un eremita – è una forma di letteratura che ultimamente frequento spesso – e mi chiedo se una persona che ha fatto della solitudine una casa, una compagna fedele e severa, sia destinato a farsi rigido e quindi si prepari alla morte, oppure se invece, questo percorso verso una elementarietà ordinaria, non sia un ritorno alla duttilità del bambino, alla semplicità di una visione immediata e diretta delle cose, senza tutte quelle sovrastrutture, come si sarebbe scritto qualche anno fa, che ci portiamo dentro, a zavorra, da adulti.

Il silenzio – mai davvero raggiungibile – che abita questa mente e questo corpo, il silenzio di una stanza o di una casa, ma anche il silenzio che si perpetua in un bosco d’alta montagna.

Ed è qui che ora vorrei tornare, dopo giorni di paura e isolamento forzato.

E allora con la mente mi abbandono ai luoghi che vorrei rivedere quanto prima, come le cembrete del Passo Manghen, con tutti quegli esemplari plurisecolari, in Trentino, la pineta dell’Alevè, in Val Varaita, così fitta, ombrosa, preistorica, qui in Piemonte.

O ancora il bosco di cirmoli e abeti che risale alle spalle della Malga Ra Stua sopra Cortina, quella splendida forcella di Lerosa, di cui celebravo l’incanto ne Il libro delle foreste scolpite (Laterza).

Immagino di svegliarmi nel freddo che ti rintocca nelle ossa, in una stanza dalle pareti rivestite di legno.

Soffi gettati nelle mani.

Le ante delle finestre che cigolando si aprono su un’alba ancora sospesa nel sogno, coi soldati della nebbia che rientrano furtivamente sotto i muschi, fra le radici scolpite, dentro i tronchi spessi e lacrimosi.

Un cervo rincorre alcune femmine, ostentando il palco delle corna, ampio, regale, come se l’avesse disegnato un naturalista amante delle proporzioni iperboliche.

La giacca, gli scarponi, porte che si aprono e si chiudono.

I primi passi, il fiato che esce, i prati che si nascondono dietro un coro di segni orizzontali.

Si sale, le ginocchia che faticano, come mio solito, e così spesso mi fermo, ma in questo modo mi guadagno il tempo di studiare i dettagli delle fronde che mi circondano e mi soverchiano.

Un visitatore che cammina in un bosco è un uomo che riconosce la propria sottomissione agli elementi che ci ignorano o, come direbbe il filosofo Andrea Emo, ignorano la loro solitudine e la nostra.

Ci sono alcune sequenze geometriche che connotano l’intrusione, l’immersione di un esploratore nella natura boscosa delle nostre montagne.

Prima di tutto la serialità, questa eco di figure che si ripetono e alternano, che nascondono il fuori al nostro sguardo, e noi allo sguardo di chi potrebbe vederci.

Entrare in una foresta è come rinascere in un mondo che è chiuso, e non è poi così psicologicamente diverso dall’arrivare per la prima volta in una grande città, in un capitale, in una metropoli colma di grattacieli.

Come se tutto quello che abbiamo conosciuto fino a questo punto venisse escluso, rinnegato, rimosso.

Noi ora seguiremo la nuova legge degli alberi, noi ora ascolteremo i suoni, i canti, gli schianti che governa il regno degli alberi. Il gorgoglio di torrenti, il mormorio di cascatelle, il vento che fruscia fra le cime delle conifere, e magari faremo esperienza dell’alfabeto di acuti e baritoni che i selvatici insistono a perpetrare, di generazione in generazione.

La nostra stessa lingua diventa archeologia, e non è male dimenticarci, come predica l’amico ed esploratore Franco Michieli, l’uso delle tecnologie, per riconquistare la nostra centralità, e tentare di fare esperienza di quella più piccola particella del tempo universale che è il presente.

E si ritorna allo zen, e si ritorna alla via spirituale degli antichi patriarchi.

Noi e il bosco che ci ospita.

Noi e il respiro profondo.

Noi e il silenzio cantato che ci abita.

(Articolo di Tiziano Fratus,  pubblicato con questo titolo il 16 aprile 2020 su “l’Extraterrestre” allegato al quotidiano “il manifesto” di pari data”)

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