Non sappiamo ancora se l’inquinamento può veicolare il contagio da coronavirus

 

A poco più di un mese dal position paper che ha avuto il merito di alzare l’attenzione (non solo mediatica ma anche di molti altri ricercatori, critici o meno) sui ruoli che l’inquinamento atmosferico potrebbe svolgere nel diffondere e/o nell’aggravare gli impatti della pandemia in corso, la Società italiana di medicina ambientale (Sima) ha pre-pubblicato un nuovo studioSearching for SARS-COV-2 on Particulate Matter: A Possible Early Indicator of COVID-19 Epidemic Recurrence.

Frutto di nove ricercatori attivi nelle Università di Bologna, Bari, Trieste, Napoli e Milano, la ricerca – non ancora sottoposta a peer-review – offre «la prima prova che l’Rna del Sars-Cov-2 può essere presente sul particolato in aria ambiente», come afferma il co-autore Gianluigi De Gennaro.

«Le prime evidenze relative alla presenza del coronavirus sul particolato provengono da analisi eseguite su 34 campioni di PM10 in aria ambiente di siti industriali della provincia di Bergamo, raccolti con due diversi campionatori d’aria per un periodo continuativo di 3 settimane, dal 21 febbraio al 13 marzo – aggiunge il co-autore Leonardo Setti – I campioni sono stati analizzati dall’Università di Trieste in collaborazione con i laboratori dell’azienda ospedaliera Giuliano Isontina, che hanno verificato la presenza del virus in almeno 8 delle 22 giornate prese in esame. 

I risultati positivi sono stati confermati su 12 diversi campioni per tutti e tre i marcatori molecolari, vale a dire il gene E, il gene N ed il gene RdRP, quest’ultimo altamente specifico per la presenza dell’Rna virale Sars-Cov-2. 

Possiamo confermare di aver ragionevolmente dimostrato la presenza di Rna virale del Sars-Cov-2 sul particolato atmosferico rilevando la presenza di geni altamente specifici, utilizzati come marcatori molecolari del virus, in due analisi genetiche parallele».

Aver trovato tracce di Rna sul PM10 non significa però che l’inquinamento atmosferico possa facilitare la trasmissione del virus: «La prova che l’Rna del Sars-Cov-2 può essere presente sul particolato in aria ambiente non attesta ancora con certezza definitiva che vi sia una terza via di contagio», sottolinea infatti lo stesso De Gennaro.

Ad esempio altri lavori di ricerca – condotti in via indipendente dal Cnr e dall’Istituto superiore di sanità (Iss) – hanno rilevato tracce di Rna del coronavirus nelle acque reflue di Roma, Milano e Monza-Brianza, ma questo non viene considerato un rischio per la salute umana in quanto la vitalità del virus in queste condizioni ambientali appare del tutto trascurabile.

Sia il Cnr sia l’Iss stanno però valutando l’opportunità di impiegare l’analisi delle acque reflue come strumento non invasivo per rilevare precocemente la presenza di infezioni nella popolazione: un modo per mappare l’evolversi della pandemia integrando (anche) dati dalle acque reflue.

Un’opzione analoga a quella avanzata dalla Sima per l’inquinamento da PM: «Questa prima prova – osserva il presidente della Società – apre la possibilità di testare la presenza del virus sul particolato atmosferico delle nostre città nei prossimi mesi come indicatore per rilevare precocemente la ricomparsa del coronavirus e adottare adeguate misure preventive prima dell’inizio di una nuova epidemia».

Un’idea che sta però suscitando critiche da parte di altri ricercatori, come nel caso dell’articolo di commento firmato da sei autori per Scienza in rete, che non condividono l’approccio usato dalla Sima: «Gli autori hanno trovato il virus in 8 dei 22 giorni presi in esame, mentre è certo dal dato dell’aumento dei positivi che in provincia di Bergamo nelle scorse settimane il virus c’è stato in modo continuo.

Davvero siamo sicuri che sia una buona idea adottare un “metodo di rilevamento precoce” che non rileva il virus in due terzi dei casi?».

Di certo c’è la necessità di ulteriori ricerche nel merito: finora la comunità scientifica non ha una posizione pressoché univoca sui ruoli che l’inquinamento atmosferico può giocare nella pandemia in corso.

Allo stato dell’arte molti dubbi sono stati avanzati in particolare sull’ipotesi (contenuta già nel primo position paper della Sima) che sia in grado di fungere da carrier, ovvero veicolare virus Sars-Cov-2 in grado di trasmettere il contagio ad altre persone.

Le evidenze finora raccolte – dalla Sima come da molti altri lavori di ricerca, sebbene anche in questo campo il consenso sia ancora lontano – suggeriscono piuttosto che l’inquinamento atmosferico sia uno dei fattori in grado di aggravare l’impatto di Covid-19 sulla popolazione, in quanto più è alta e costante nel tempo l’esposizione a PM più è alta la probabilità che il sistema respiratorio sia soggetto a malattie gravi (una considerazione valida anche per il fumo da tabacco).

«La correlazione fra polveri sottili e mortalità da Covid-19 è un’informazione importante che contribuisce a definire meglio lo scenario dei fattori di rischio – ha osservato nei giorni scorsi il presidente del Consiglio superiore di sanità (Css), Franco Locatelli – Sono studi importanti da tenere nella dovuta considerazione, ma da qui a trarre conclusioni definitive ce ne corre un pochino, anche se di certo non li sottovalutiamo».

(Articolo di Luca Aterini, pubblicato con questo titolo il 27 aprile 2020 sul sito online “greenreport.it”)

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