Inquinamento da PM, gli allevamenti sono la seconda fonte di emissione in Italia

 

Secondo gli ultimi dati pubblicati da Ispra – ovvero l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale – da agricoltura e allevamenti arriva il 7% delle emissioni nazionali di gas serra e oltre il 90% delle emissioni di ammoniaca.

In entrambi i casi il contributo degli allevamenti (80%) è determinante, e per capirne di più Greenpeace ha condotto in collaborazione con Ispra un’indagine incentrata sull’inquinamento da particolato (PM) in Pianura Padana per poi tornare da allargare lo sguardo all’intero Paese.

Premessa doverosa, per distinguere tra PM primario e secondario: il PM primario sono le polveri sottili emesse direttamente dalle sorgenti inquinanti (ad esempio dalle auto), mentre il PM secondario si forma in atmosfera a causa dei processi chimico-fisici che coinvolgono diversi gas precursori tra i quali l’ammoniaca.

Il contributo degli allevamenti è molto importante per questa seconda categoria, soprattutto nel bacino padano.

Gli allevamenti infatti sono responsabili di circa l’85% delle emissioni di ammoniaca in Lombardia, e secondo l’Arpa regionale queste emissioni «concorrono mediamente a un terzo del PM della Lombardia, ma durante gli episodi acuti (con picchi registrati durante lo spandimento di liquami sui campi a febbraio-marzo e ottobre-novembre, ndr) tale contributo aumenta superando il 50% del totale».

Il contributo di agricoltura e allevamenti all’inquinamento da particolato in Emilia-Romagna invece è minore ma comunque significativo, come mostra un recente studio dell’Arpa locale: «Le pratiche agricole contribuiscono in maniera quasi trascurabile al PM10 primario (circa il 3%) e molto a quello secondario (26%), risultando nel complesso il secondo fattore di pressione per importanza, attestandosi circa al 19%» (al primo posto c’è il traffico merci con il 21%, al terzo posto il riscaldamento con il 17% complessivo).

E a livello nazionale?

L’analisi condotta da Greenpeace in collaborazione con Ispra sul PM2,5 (primario e secondario) mostra che sotto questo profilo il settore più inquinante è il riscaldamento residenziale e commerciale – responsabile del 36,9% delle emissioni totali di PM2,5 –, seguito dagli allevamenti (16,6%), dai trasporti stradali (14%), dall’industria (10%) e da altri tipi di trasporti (7,8%), mentre in fondo alla classifica risultano l’agricoltura (4,4%) e le produzioni energetiche (2,5%).

Guardando alla serie storica di PM primario e secondario, Greenpeace evidenzia che la percentuale del contributo degli allevamenti non è mai diminuita, anzi ha continuato a crescere: è passata dal 7% negli anni ‘90 al 17% circa nel 2018.

Per ridurre le emissioni di ammoniaca e quindi le concentrazioni di particolato «il settore allevamenti potrebbe fare molto», come precisa il responsabile area emissioni e prevenzione dell’inquinamento atmosferico di Ispra, Riccardo De Lauretis.

Ad esempio «i Comuni dovrebbero stabilire qual è il numero massimo di allevamenti e capi allevati che è possibile avere sul loro territorio, perché altrimenti i danni si ripercuotono sui cittadini».

«Gli allevamenti intensivi non solo si confermano la seconda causa di polveri sottili – commenta Federica Ferrario, responsabile campagna Agricoltura di Greenpeace Italia – ma si può osservare come dal 1990 al 2018 il loro contributo sia andato crescendo.

Paradossalmente, però, una gran quantità di soldi pubblici continua a foraggiare questo sistema, a cominciare dai sussidi della Pac.

Per ridurre le emissioni di ammoniaca e quindi le concentrazioni di particolato il settore allevamenti potrebbe fare molto.

Puntare sulla qualità invece che sulla quantità è una priorità: attraverso produzioni che rispettino alti standard anche dal punto di vista ambientale, possiamo rilanciare il nostro Made in Italy dopo questa difficile fase emergenziale, per questo le strategie future, come il Green deal europeo e Farm to fork, e strumenti come la Pac devono prevedere risorse adeguate per aiutare le aziende agricole a ridurre il numero degli animali allevati e nel passaggio a metodi di produzione ecologici».

Con la consapevolezza che, con tutta probabilità, questo comporterebbe prezzi maggiore per la carne e gli altri prodotti della filiera venduti ai consumatori.

Del resto anche la prestigiosa rivista medica Lancet suggerisce di ridurre il consumo di carne rossa di oltre il 50%, mentre non viene chiesta la totale eliminazione del consumo di carne.

«Secondo i nutrizionisti – osservano nel merito da Slow food – a un adulto sano è sufficiente mangiarne poco più di 500 grammi la settimana per stare bene.

Oggi in Italia mediamente ne consumiamo circa il triplo».

Meno carne dunque, ma di maggiore qualità per migliorare la salute del pianeta e pure la nostra.

(Articolo di Luca Aterini, pubblicato con questo titolo il 30 aprile 2020 sul sito online “greenreport.it”)

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