«Coprivirus», l’altra faccia dell’usa e getta

 

Sette virgola sette miliardi di esseri umani: se tutti portassero mascherina e guanti monouso in ogni spazio pubblico, per mesi, quale sarebbe lo «zaino ecologico» (il consumo di materiali, acqua, energia) incorporato nella produzione di miliardi di pezzi al giorno?

E come si potrebbero smaltire con decenza tali rifiuti non differenziabili?

E con quale denaro i popoli e gli individui più poveri potrebbero comprare ogni giorno un nuovo dispositivo?

Infine, è umanamente sostenibile che un operaio edile in Iraq, un’operaia tessile in Bangladesh, un minatore sudafricano si infliggano aggeggi che li farebbero faticare e sudare ancora di più?

Comunque è in Occidente, dove si concentrano emergenza da Covid-19 e morti, che questi dispositivi di protezione individuale sono diventati oggetto di diplomazia sanitaria, propaganda politica a livello locale, panico da penuria, rialzo speculativo dei prezzi, svariate leggende metropolitane.

Non sono amuleti né nuovi gadget, né status symbol del 2020, eppure…

… eppure da molte settimane ormai la maggioranza degli italiani indossa mascherine di varie tipologie (vedi legenda), anche all’aperto su strade deserte, o nella solitudine dell’automobile, o in regioni non molto colpite dal virus; magari spostandole spesso sulla testa e sul mento, o togliendole per parlare da vicino a tu per tu.

Per non dire di chi si è accaparrato i dispositivi professionali che a lungo sono mancati negli ospedali e per i lavoratori a rischio.

In ogni caso dal 4 maggio in virtù del Decreto governativo del 26 aprile le mascherine del tipo chirurgico diventano obbligatorie anche nei «luoghi chiusi accessibili al pubblico» (trasporti, uffici, negozi).
Così ogni mese solo per il nostro paese – stando ai calcoli del Politecnico di Torino riportati da Luca Mercalli – occorreranno: un miliardo di mascherine, mezzo miliardo di (paia di?) guanti, 5 milioni di cuffie per capelli, 9 milioni di litri di gel igienizzante.

L’impatto è già evidente.

ll biologo marino Silvio Greco il 28 aprile lanciava l’allarme: «I battelli pulisci-mare Pelikan stanno già pescando guanti monouso e mascherine di ogni tipo.

Armi letali per diversi organismi acquatici che li confondono con le prede».

Due le richieste: alla cittadinanza perché si astenga da un ennesimo randagismo dei rifiuti; ai produttori perché ricorrano a un unico materiale e riciclabile.

Dispositivi biodegradabili, riutilizzabili e riciclabili sono chiesti anche da Mare vivo (nell’ottica di una economia circolare e dell’impegno plastic-free).

Legambiente sottolinea la necessità di una campagna di sensibilizzazione contro gli abbandoni di queste merci che servono una volta e inquinano per sempre.

Spiega il sito Greenreport che i decisori politici dovrebbero suggerire due strade da seguire: la riusabilità (studiare soluzioni e filati che mantengano la funzione protettiva a distanza nel tempo); e il riciclo, ma allora occorrerebbe obbligare a un solo polimero o al limite due, dalla possibilità di riciclaggio ormai consolidata.

Qui parliamo delle mascherine chiamate chirurgiche, quelle a uso generale, ribattezzate nell’epoca del Covid-19 «altruiste» perché un asintomatico positivo, indossandole, può proteggere gli altri dalle goccioline (veicolo del famigerato Sars-CoV-2) che fuoriescono da naso e bocca durante la respirazione e quando si parla, e molto di più nel caso di tosse e starnuti.

In realtà, molti portatori di chirurgiche hanno creduto per mesi di proteggere in primis se stessi facendo incetta dei dispositivi.

L’Oms stessa ha sempre ribadito (nell’ advice for public-when and how to use a mask) che questo tipo di protezione andrebbe indossato solo a) dal personale sanitario per proteggere i pazienti non Covid-19 e b) da chi è contagiato: «Se non hai sintomi, e non ti stai occupando di qualcuno che li ha, allora stai sprecando una mascherina».

Obiezione: gli asintomatici non sanno di essere infetti.

La regola base, comunque, è il distanziamento: la distanza di sicurezza nei riguardi di un infetto asintomatico (che, dunque, non starnutisce né tossisce) è un metro secondo l’Oms – e secondo i vari decreti governativi italiani susseguitisi da marzo in poi).

Il 13 aprile, stanco delle pressioni, il portavoce dell’Oms David Nabarro ha dichiarato: «In futuro qualche tipo di protezione facciale sarà la norma, anche solo per rassicurare le persone»…

Tanti gli errori mentre si indossa una mascherina fuori da ambiti professionali.

Sul The Atlantic, il professor Joshua Santarpia ha avvertito perentorio: «Ti sei messo in faccia qualcosa che ti spinge a toccarti il viso e l’esterno della maschera.

Ti sei messo in faccia un rischio».

E c’è anche chi ha fatto rilevare la pericolosità dell’indossarle in moto o auto: si rischia l’ipo-ossigenazione (e conseguenti incidenti stradali).

Oltretutto l’efficacia complessiva dell’uso dei dispositivi di protezione dipende non solo dalla loro capacità di bloccare l’eventuale virus del portatore, ma dalla percentuale di popolazione che li utilizza e dal tasso di trasmissibilità della malattia.

Dei potenziali effetti collaterali della mascherina indossata da non addetti ai lavori ha riferito il sito specialistico Bmj.

Intanto genera un falso senso di sicurezza che induce ad allentare il rispetto delle altre misure di controllo (la distanza e l’igiene).

Inevitabile, poi, una certa difficoltà nel respirare (tanto più in caso di fatica e calore), con l’inalazione di una parte dell’anidride carbonica emessa.

Insomma, il dispositivo «non equivale propriamente a un paracadute quando ci si butta dall’aereo».
Altrettante precauzioni occorrono per la manutenzione delle mascherine monouso.

C’è chi cerca di prolungarne la vita, ma per fare un po’ di ordine nel caos dei consigli, la rivista francese Que choisir spiega che sono deleteri i tentativi di «igienizzare» nel forno, o a vapore, o con disinfettanti tipo alcol e candeggina.

Suggerisce, in caso di penuria, di appendere il pezzo all’aria aperta e al sole per qualche giorno così da far cadere la carica virale.

Tuttavia l’efficacia si riduce, e comunque – spiegano i lavoratori manuali -, è difficile prolungarne decentemente l’utilizzo se si fanno attività pesanti e si suda al caldo.

Dolente il capitolo dei guanti di plastica monouso.

Sono destinati in realtà al personale sanitario e di cura, e agli addetti alle pulizie e al commercio di alimenti.

Lo hanno detto perfino e più volte gli esperti alla tivù: diventano un ricettacolo di germi se indossati magari tutto il giorno toccando ogni genere di oggetti e poi aggiustandosi i capelli o grattandosi il volto.

Teoricamente andrebbero tolti e buttati (senza toccarli con le dita) a ogni contatto.

Spiega da Cagliari il medico infettivologo Luchino Chessa: «Qual è il senso?

Le persone indossano i guanti a casa, guidano, vanno in pullman e arrivano nel negozio con batteri e virus accumulati nel tragitto…».

Insomma, invece dei guanti, meglio evitare di toccare tutto.

E in generale, evviva acqua e sapone.

Risorse, comunque, da non sprecare.

(Articolo di Marinella Correggia, pubblicato con questo titolo il 7 maggio 2020 su l’ “Extraterrestre” allegato al quotidiano “il manifesto” di pari data)

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