«Noi, abituati alla solitudine, non soffriamo la quarantena»

 

Il sentiero che porta al rifugio Selleries incomincia laddove, intorno agli anni Venti del 900, il senatore Agnelli fece costruire due giganteschi sanatori in stile liberty per i lavoratori delle fabbriche: il padiglione Edoardo Agnelli e il Tina Nasi, maschile e femminile, hanno ospitato fino agli anni settanta malati di tubercolosi e non solo, migliaia.

La montagna incantata.

Trasformati con una geniale operazione culturale e sociale negli anni ottanta nel primo centro di educazione ambientale d’Italia, la pietra fondante su cui poggia l’intera pedagogia ambientale italiana, Pracatinat – questo il nome con cui furono ribattezzati i sanatori – oggi sono semi smantellati e in attesa di un futuro alberghiero nella migliore delle ipotesi.

Siamo in val Chisone nel parco regionale dell’Orsiera Rocciavrè, una stretta valle ad ovest di Torino, e il percorso corre in un passato contadino e operaio per sei chilometri, mai difficili, che tra poche settimane diverranno un mare di verde punteggiato di bianchi crochi e poi, più in là, rododendri rosati.

Massimo Manavella, il gestore, è consigliere del Coordinamento nazionale rifugi italiani, e da sessanta giorni vive quassù, isolato in un rifugio in grado di ospitare decine di persone e rimasto deserto.

Lei è sempre rimasto nel rifugio?

Sì, sono sessanta giorni di isolamento.

Ho ricevuto diverse richieste da parte di escursionisti ma abbiamo deciso di non derogare fin dai primi giorni di semi chiusura.

Ricordo che quando è scattata la quarantena generale ho ricevuto una telefonata da alcuni milanesi che dopo essere riusciti a uscire da Milano, in dieci, mi chiedevano con tono risoluto di poter passare il periodo di isolamento quassù.

Rifiutai e gli dissi di tornare a casa: la presero male, pensavano di poter ottenere quello che volevano pagando e basta.

Cosa si fa per sessanta giorni isolati in alta montagna?

Si diventa degli esperti informatici per riuscire a partecipare agli incontri con gli altri rifugisti d’Italia, si leggono grandi romanzi storici, mi sono dedicato per ore e ore a Ildefonso Falcones, non mancano i lavori di manutenzione, e poi si riflette molto sul senso di cosa facciamo, sul futuro.

Un po’ la vita di tutti, insomma.

La solitudine le ha fatto compagnia?

No, e poi comunque ci siamo abituati noi.

La natura, già selvaggia dato che siamo nel cuore del Parco Naturale dell’Orsiera Rocciavrè, è cambiata?

Sì, fin dai primi giorni il via vai di animali selvatici si è fatto più fitto.

I camosci oggi sono praticamente di casa e vengono a curiosare davanti alla porta di entrata anche di giorno.

Il loro è praticamente un saluto.

Il vecchio lupo, una presenza costante ma effimera, si è fatto vedere, e nel cielo le discussioni tra gracchi, corvi e aquile su chi debba cacciare per primo i rospi nel laghetto poco distante sono affare quotidiano.

È facile perfino comprendere il senso dei loro scambi, piuttosto rissoso.

Anche qui dove gli animali sono di casa la natura è avanzata in sicurezza.

Quanto ha inciso il Covid nella vita del rifugio?

Partiamo da un punto culturale: un rifugio in alta montagna non è un albergo.

Siamo un punto di mondo che si pone lungo il confine dell’incerto: qui le condizioni climatiche e naturali, fanno sì che nell’ordine delle cose esista la possibilità di rimanere isolati e per lungo tempo.

Quando le nevicate sono particolarmente intense e il pericolo di valanghe aumenta noi chiudiamo, ad esempio.

Nonostante questo tutti noi rifugisti siamo molto impressionati dalla portata di quanto avvenuto.

Siamo stati azzerati e lo saremo ancora per molto tempo: io ospitavo gruppi di studenti che venivano a fare laboratori di eduzione ambientale, ad esempio, centinaia di presenze, e sono ovviamente stati cancellati. 

Esistono indubbiamente condizioni più drammatiche della mia e non mi piace fare la parte del lamentoso per indole, ma la situazione è molto complessa: ci confrontiamo con la perdita di migliaia di presenze, che significa perdita di posti di lavoro e l’incertezza per un futuro ancora da disegnare.

Quante persone lavoravano al Selleries?

Due fisse, ora in cassa integrazione, per fortuna, e nel periodo estivo e nei fine settimana altre quattro sei ragazzi con contratti stagionali.

Come vi state organizzando?

Andiamo sicuramente incontro, come del resto tutta Italia, a importanti perdite d’esercizio: ma non aumenteremo i prezzi e non taglieremo il personale.

La montagna deve continuare a essere un posto per tutti e i limiti non potranno che essere sanitari.

In questo ci viene incontro il Club Alpino Italiano e la Regione Piemonte, ovvero i proprietari della quasi totalità dei rifugi piemontesi, che stanno stanziando fondi atti a compensare le perdite.

Il governo inoltre dovrebbe varare una norma per la detrazione di parte dell’affitto: spero che queste opportunità vengano ben sfruttare, perché sono fondi pubblici e lo Stato siamo noi.

Dal punto di vista logistico?

I problemi vengono dalle camerate comuni e dalla mensa, cioè il cuore del rifugio, la zona comunitaria che rende speciale soggiornare quassù.

Andiamo verso la ristorazione da consumarsi all’esterno della struttura, nonché la costruzione di una tensostruttura all’aperto.

I rifugi in montagna sono fatti per dare accoglienza in condizioni complicate o perfino pericolose: ci riusciremo.

(Articolo di  Maurizio Pagliassotti, pubblicato con questo titolo il 7 maggio 2020 su “L’Extraterrestre” allegato al quotidiano “il manifesto” di pari data)

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