Quella metà del Pianeta che sta meglio senza di noi

 

Spiagge, montagne, colline e pianure.

Non importa dove si giri lo sguardo: ormai è difficile trovare un ambiente completamente al riparo dall’azione umana, che si tratti di urbanizzazione, sfruttamento di risorse, agricoltura o allevamento.

È pur vero però che ci troviamo in un punto di osservazione molto particolare: la ‘vecchia’ Europa, addomesticata per millenni alle esigenze umane.

E soprattutto, patria della rivoluzione industriale che ha accelerato drasticamente l’inquinamento e lo sfruttamento delle risorse del nostro Pianeta.

Allargando allora lo sguardo al resto del mondo, quanta parte delle terre emerse è ancora al riparo dalla nostra dannosa influenza?

Un nuovo studio della National Geographic Society ha provato a rispondere incrociando i dati provenienti da 4 recenti tentativi di mappare l’impatto delle attività umane sul Pianeta.

E i risultati, pubblicati sulla rivista Global Change Biology, parlano di circa metà della Terra è ormai indelebilmente segnata dalla nostra presenza, e di un’altra metà che può ancora essere salvata, agendo con celerità e risolutezza.

I dati utilizzati dai ricercatori per stimare la percentuale di terre ‘antropizzate’ della Terra provengono da quattro grandi database realizzati negli ultimi anni da altri gruppi di ricerca.

 Tentativi di mappare il nostro impatto sul Pianeta che, se pur realizzati con metodologie differenti, forniscono risultati molto simili, e quindi probabilmente affidabili.

Aggregando i dati analizzati, i ricercatori calcolano che il 50% circa del mondo sia ancora in un una situazione di basso impatto di attività umane, e quindi ancora recuperabile con i dovuti interventi di protezione.

Mentre solamente una percentuale compresa tra il 20 e il 34% delle terre emerse non coperte da ghiacci perenni può essere considerata in una situazione di antropizzazione ‘molto bassa’.

Lo studio nasceva per essere presentato durante il prossimo meeting della Conference of the Parties della Convenzione sulla diversità biologica, che si sarebbe dovuto tenere il prossimo autunno in Cina (e ora rinviato a causa della pandemia).

Un incontro molto atteso da cui sarebbero dovuti emergere gli obbiettivi più urgenti verso cui indirizzare gli sforzi di conservazione dei prossimi decenni. Forse anche per questo, gli autori dello studio hanno deciso di interpretare i risultati guardando al bicchiere mezzo pieno.

Il messaggio incoraggiante che arriva dal nostro studio – commenta infatti Jason Riggio, primo autore del paper – è che se agiamo velocemente e con decisione abbiamo ancora una piccola finestra utile per conservare più o meno intatte circa metà delle terre del nostro Pianeta“.

Attualmente – ricorda il ricercatore – solamente il 15% delle terre emerse e circa il 10% degli oceani sono parte di un’area protetta o preservate all’interno di un qualche trattato internazionale.

L’obiettivo, portato avanti da associazioni come Nature Needs Half e the Half-Earth Project è quello di raggiungere almeno un 30% entro il 2030, e il 50% per il 2050.

Non solo per amore del Pianeta, ma anche per pura autoconservazione.

I territori vergini sono infatti riserve di ecosistemi funzionanti che forniscono al Pianeta una lunga lista di servizi ecosistemici fondamentali per la nostra sopravvivenza: purificano l’aria e le acque, garantiscono il ciclo delle acque e quello dei nutrienti necessari all’agricoltura, sono una riserva di impollinatori e di biodiversità.

Un patrimonio che gli scienziati stimano fornire alla nostra specie, ogni anno, l’equivalente di biliardi di dollari in servizi essenziali, pressoché impossibili da ottenere altrimenti.

Non è tutto.

Se c’è qualcosa che dovrebbe averci insegnato l’attuale pandemia di Covid 19 è proprio il pericolo e i danni che possono arrivare dall’invasione umana delle zone selvagge del pianeta.

Gli animali che abitano in queste aree vergini sono infatti il principale serbatoio di virus zoonotici pronti per un nuovo salto di specie, come avvenuto probabilmente nel caso del coronavirus con cui siamo alle prese attualmente.

E il rischio di nuovi Covid – spiegano gli autori della ricerca – verrebbe minimizzato fermando il traffico di animali protetti e minimizzando le intrusioni umane nelle aree selvagge del Pianeta.

(Articolo di Simone Valesini, pubblicato con questo titolo il 17 giugno 2020 sul sito online del quotidiano “la Repubblica”)

 

 

 

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