Un caffè corretto

 

Al caffè noi italiani non sappiamo dire di no, tanto che si stima che mediamente ne beviamo quasi sei chilogrammi all’anno per persona.

Tanto?

Certamente un buon consumo, ma c’è chi fa meglio, come i Paesi del nord Europa dove si passa dai 12 kg dei finlandesi ai dieci dei norvegesi agli 8 kg degli svedesi.

Come però spesso accade per i prodotti che arrivano da altre parti del mondo il nostro interesse si ferma al gusto e alla salubrità; molto raramente ci spingiamo a informarci sulle condizioni di lavoro e di vita dei contadini di quelle zone.

Fattori invece che stanno particolarmente a cuore a Progettomondo.mlal – organizzazione non governativa di cooperazione internazionale che opera in Sud America e Africa – che attraverso un progetto denominato Café Correcto vuole migliorare le condizioni di vita delle comunità contadine nelle piantagioni di caffè situate sul versante amazzonico delle Ande, in particolare in Perù e Bolivia a mille metri d’altitudine, dove l’importanza della tutela sociale, l’accesso ai servizi di base o qualsiasi forma previdenziale è un lusso e non un diritto.

«È l’effetto di anni e anni di politiche neoliberali, in cui lo stato sociale, ancora oggi, viene considerato un retaggio ideologico statalista, un ostacolo allo sviluppo basato solo sulla crescita del prodotto interno lordo; ed è anche, in Perù, il risultato di una forte precarizzazione del lavoro frutto di un modello essenzialmente estrattivista», spiega Mario Mancini, responsabile del progetto Café Correcto e presidente di Progettomondo.mlal.

«I produttori di caffè rappresentano una parte importante di quel settore di popolazione in fuga dalla povertà, che dalle Ande è migrata verso le zone più alte della foresta in cerca di opportunità. Un mix terribile», precisa, «in cui i diritti per lo stato rappresentano un peso e per la gente comune un lusso. In Bolivia il cambio di rotta avvenuto con l’ascesa al governo di Morales non è stato sufficiente a modificare un problema strutturale e, nonostante abbia ampliato l’accesso a diritti fondamentali, ha indebolito la crescita organizzativa dal basso».

L’AGRICOLTURA FAMILIARE IN QUESTE ZONE è sempre più precaria a causa del disinteresse premeditato dei governi che preferiscono investire su un’agricoltura orientata all’esportazione, lasciando le briciole ai piccoli produttori, condannandoli alla sopravvivenza.

«Chi produce caffè, nonostante questo prodotto non sia considerato un alimento, sono contadini a pieno titolo, visto che coltivano nei loro appezzamenti frutta, ortaggi e tanto altro, ma sono tenuti poco in considerazione.

Per questo abbiamo iniziato con la filiera del caffè», continua, «anche perché comportava un impegno sul tema ambientale, tra cui l’adattamento ai cambiamenti climatici e il controllo della deforestazione, ma è evidente che l’essenza del progetto sia l’attenzione alle persone, ai soggetti vulnerabili, indipendentemente dalla filiera e dal prodotto».

IL PROGETTO HA PRESO AVVIO nelle regioni di Cajamarca, Junin e Puno in Perù, e negli Yungas della regione di La Paz in Bolivia.

«Queste sono anche zone di produzione di foglia di coca, che negli anni ha rappresentato un forte polo di attrazione delle popolazioni rurali delle Ande.

La scelta di lavorare con le cooperative di caffè, quindi con famiglie produttrici, è legata», sottolinea Mancini, «alla realtà sociale e produttiva.

Siamo in un contesto in cui non esistono più grandi piantagioni con latifondi, ma dove si mantengono allo stesso tempo autonomia, precarietà e dipendenza.

È raro che le famiglie produttrici di caffè siano proprietarie degli appezzamenti; in generale occupano terre demaniali di cui hanno il possesso e non la proprietà legale.

Tutti i componenti della famiglia vi lavorano, ma in condizioni di assoluta precarietà».

AL PROGETTO CAFÉ CORRECTO hanno aderito in Perù 3 mila contadini, coinvolgendo di fatto 11.800 famiglie, mentre in Bolivia quattrocento agricoltori con duemila nuclei familiari.

Il progetto però non si è focalizzato sulla commercializzazione del caffè all’estero, dato che tutte le cooperative hanno una vendita garantita (il 75% fanno parte di Fair Trade e altre forme di certificazione), ma sull’offerta di assistenza tecnica a trentadue imprese nella promozione del consumo nel mercato interno peruviano e boliviano di caffè, che comporta avere un maggior reddito e nuovi posti di lavoro.

«Chi partecipa al progetto sono per più della metà donne», afferma Mancini.

«Si punta molto all’equità di genere, per esempio nella dimensione economica, puntando alla parità di reddito e, nella dimensione sociale, promuovendo le donne ad assumere ruoli di responsabilità nelle organizzazioni.

C’è poi particolare attenzione per il fattore intergenerazionale, coinvolgendo i giovani che sono i primi ad abbandonare il lavoro nei campi per mancanza di opportunità e la relazione con gli anziani nei ruoli produttivi.

Gli uomini adulti», prosegue, «spesso migrano per lavorare stagionalmente nelle miniere, al fine di integrare il reddito ottenuto con il caffè.

Tutto ciò fa sì che nelle piantagioni per lunghi mesi vi siano solo donne, bambini e anziani senza alcun tipo di protezione.

Con l’adesione al progetto, circa il 70% delle famiglie ha ottenuto una copertura sanitaria in Perù mentre in Bolivia siamo arrivati al 100%».

A questo risultato occorre affiancarne anche un altro, molto innovativo per entrambi i Paesi, che è di costruire e avviare un sistema di gestione forestale orientato a fini pensionistici.

«È stato creato un fondo comune tra imprese agroforestali che si alimenta dalla vendita certificata di legname, e che allo stesso tempo previene e contrasta la deforestazione», spiega Mancini, «così facendo le famiglie costruiscono un fondo di risparmio per il loro futuro, una sorta di pensione. Gli introiti dalla vendita del legname rappresentano in parte un beneficio immediato (circa il 30%) per i contadini e per il resto vanno a costituire il fondo da utilizzare nel tempo, assegnato secondo il conferimento.

In Bolivia e in Perù questo modello sta già funzionando in almeno tre cooperative, circa 800 soci, anche se l’obiettivo è di raggruppare un alto numero di famiglie per zona, dobbiamo arrivare almeno a 8 mila soci per territorio affinché il tutto possa essere sostenibile».

(Articolo di Giorgio Vincenzi, pubblicato con questo titolo il 1 ottobre 2020 su “L’Extraterrestre” allegato al quotidiano “il manifesto” di pari data)

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