La corsa senza quartiere all’avocado. Il lato oscuro dell’oro verde

 

CITTÀ DEL MESSICO – “Da oggi si cambia. Basta con mais e fagioli, limoni e arance. D’ora in poi solo aguacates!“.

Piegati sul terreno e allungati verso gli alberi carichi di frutta, i contadini restarono in silenzio.

L’uomo che imbracciava l’Ak-47, il cuervo de chivo, l’arma più amata dai narcos, non ammetteva repliche.

Era venuto il momento tanto atteso.

Di lì a sei mesi gli interi Stati Uniti avrebbero smesso di lavorare, si sarebbero riversati nelle loro case, avrebbero esteso gli inviti a amici e parenti, le stanze si sarebbero trasformate in sale multischermo per assistere al Super Bowl, l’avvenimento sportivo più sentito per decine di milioni di americani.

In patria e all’estero.

La finale del football made in Usa, quella che assegna il titolo dei Campioni.

Ma più a sud, a duemila chilometri di distanza, nello Stato messicano di Michoacán, scattava la stessa dose di adrenalina, con in ballo montagne di quattrini.

Sono gli effetti della globalizzazione.

Seduti davanti alle tv milioni di americani avrebbero ingurgitato fiumi di birra, divorato montagne di nachos insieme alla salsa di guacamole: la crema ricavata dall’impasto di aglio, lime, olio, angostura, sale, pepe, un pizzico di peperoncino e l’onnipresente aguacate, noto in tutto il mondo come ”avocado”.

Ed è proprio lui, questo frutto dalla polpa verde, ipercalorico ma ottimo antiossidante, eletto dai Millennials come “super alimento”, a trasformare l’economia di un intero Stato del Messico.

Si stima che il paese nordamericano produca e controlli il 60% del mercato mondiale.

Grazie alla pioggia abbondante, un sole generoso e una terra ricca di minerali di origine vulcanica, l’avocado da almeno dieci anni ha attirato l’attenzione dei cartelli pronti a diversificare la montagna di quattrini che ricavano dal traffico di droga, di armi e di esseri umani.

Così, da terra baciata dalla natura – ma comunque dura da coltivare, – il Michoacán è diventata improvvisamente la Mecca del nuovo “oro verde”.

Nel 2019 ha prodotto ricavi per 2,22 miliardi di dollari, secondo il Sistema di Informazione Agricolo (Savi) e il ministero dell’Economia messicano.

Nella sola giornata del Super Bowl 2020 se ne sono consumate 140 mila tonnellate: un guadagno che sfiora i 200 milioni di dollari.

La cronaca di quel cambiamento decretato da uno dei capi dei cartelli de “Los Caballeros Templarios”, all’epoca dominante nella regione, poi soppiantati dalla “Familia Michoacana” e quindi da “Los Viagras”, tutti in lotta contro Los Zetas, ex corpi d’élite nella battaglia al narcotrafffico passati sul fronte opposto, segna l’inizio di una svolta nella produzione delle oltre 40 varietà di avocado presenti sul Pianeta. T

renta di queste si trovano in Messico.

Siamo agli inizi del 1990: è l’inizio della corsa all'”oro verde”.

Da poche settimane è stato rinnovato il Trattato di Libero Commercio dell’America del Nord (TLCAN, noto come NAFTA adesso diventato USMCA e sottoscritto da Usa, Messico e Canada).

Come prima mossa gli Usa sospendono l’importazione dell’avocado.

I narcos fiutano subito il business e si attivano per controllare il traffico di prodotti agricoli diretti a nord.

In un reportage l’Economist registra i segnali di un cambiamento destinato a segnare una delle tappe nella storia dei cartelli.

“I narcos”, avvertirà il settimanale britannico, “stanno diversificando i propri investimenti.

Sono uomini d’affari e non si limitano a fare quello che hanno sempre fatto.

Studiano il mercato, analizzano la domanda e adeguano l’offerta.

Oltre al lime, alla tequila e all’acciaio guardano all’avocado. Dividono i rischi come si fa in ogni business“.  
Quell’analisi di basava sui dati che la potente organizzazione degli agrari messicani registrava da mesi.

E da un insolito interesse delle bande criminali in un settore che avevano sempre escluso dai loro affari.

Il Michoacán, assieme agli Stati di Sinaloa, Jalisco e Oaxaca, stavano riconvertendo i propri terreni per la coltivazione intensiva di questo frutto verde che era sempre più richiesto negli Usa e poi anche in Europa.

L’aguacate era diventato di moda anche nei ristoranti e nei bar statunitensi, per le nuove ricette degli chef stellati, toccando i palati e le tendenze più raffinate.

Oggi può apparire normale: ovunque, anche nei più piccoli negozi, si trovano gli avocado.

Magari duri, ancora da maturare, diversi nei colori, nei sapori e nella consistenza.

Ma vent’anni fa erano facevano parte di quelle prelibatezze che pochi conoscevano dopo averli scoperti e provati in vacanza nelle perle turistiche messicane.

Il boom dell’avocado ha stravolto il mercato ortofrutticolo, finendo per condizionare le economie locali e obbligando i piccoli proprietari terrieri e i contadini a modificare i propri raccolti.

La corsa all’oro verde è diventata la guerra per l’oro verde.

I cartelli locali hanno monopolizzano il settore a suon di minacce, estorsioni e imponendo un pizzo sulla produzione.

Le tariffe si sono adeguate al volume delle esportazioni.

L’ultima è di 100 dollari per ogni ettaro coltivato e cinquanta centesimi per ogni frutto giunto a maturazione.

La rete del controllo si è estesa via via a tutta la filiera: dai mezzadri impiegati nella raccolta fino ai produttori di fertilizzanti. I profitti, del resto, giustificano l’investimento.

Ogni anno il settore assicura ai cartelli 150 milioni di dollari.

Nel 2019 le esportazioni si sono moltiplicate per quattro.

Le vendite nei soli Stati Uniti hanno fatto incassare 2,5 miliardi di dollari.

Più del petrolio.

I terreni coltivati sono cresciuti del 200 per cento.

Qualcuno ha fatto un calcolo: coprono una superficie grande come la città di Londra.

Cuore della produzione è Uruapan, una cittadina di 300 mila abitanti, considerata oggi la capitale industriale dell’avocado messicano.

In dieci anni si è trasformata: dietro le casette con i tetti di lamiera, i bar, le trattorie e i negozietti che si perdono nei vicoli sorgono i grandi capannoni dei nuovi padroni.

Gente che governa con le armi e detta legge a suon di premi e di minacce.

L’irruzione tra i cartelli della Jalisco Nueva Generación, costola del vecchio gruppo di Sinaloa – adesso in difficoltà dopo la cattura, l’estradizione negli Usa e la condanna all’ergastolo del Chapo Guzmán –  sconvolge i vecchi equilibri e impone nuove leggi.

Fornito di armi e mezzi blindati degni di un vero esercito, questo cartello è riuscito a conquistare gran parte del Messico.

Non si limita al tradizionale traffico di marijuana, cocaina, metanfetamina diretto negli Usa e in Europa.

Controlla quello delle armi, le estorsioni, il sesso a pagamento, oltre al flusso di immigrati che continua a salire dal Centro America inseguendo i dreamers che a fatica si sono inseriti negli Stati Uniti.

Per imporre il loro potere ricorrono a ogni forma di pressione.

L’aumento vertiginoso degli omicidi è il segnale di questo cambiamento nella geografia del crimine organizzato: nel 2019 sono state uccise 1.338 persone nel Michoacán, il più alto numero di ogni altro Stato.

Nei primi mesi del 2020 siamo già arrivati a 1.145 e si teme che possano superare i 1.500 entro la fine dell’anno.

La sicurezza è così precaria che nel giugno scorso un gruppo di produttori di avocado mise un annuncio a pagamento su diversi giornali nazionali avvertendo “l’impatto irreparabile” nel settore “se non ci saranno interventi straordinari dei funzionari“.

Nell’agosto del 2019, il Dipartimento all’Agricoltura Usa è stato costretto a sospendere il programma di ispezioni sulle coltivazioni di avocado in una cittadina vicina a Uruapan dopo le minacce ricevute da alcuni dei suoi dipendenti.

I media locali raccontarono che un ispettore aveva subito un assalto in pieno giorno mentre altri impiegati erano stati intimiditi dopo essersi rifiutati di rilasciare un certificato di esportazione a un’azienda locale che produce il magico frutto.

Gli effetti della corsa all’oro si riflettono sull’ambiente.

Oltre ai danni provocati dal disboscamento per creare terreni da coltivazioni intensive, c’è il problema dell’acqua.

L’avocado per crescere ne ha bisogno in abbondanza e si sa che in Messico scarseggia anche per l’uso quotidiano, quello potabile.

Secondo calcoli dell’Università di Twente, in Olanda, la produzione di 500 grammi di frutta richiede 272 litri d’acqua.

L’aumento della superficie dedicato alla monocoltura, rileva lo studio, sottopone inoltre l’area a un maggiore stress idrico.

L’impatto si riflette anche sulle emissioni di gas.

Negli ultimi anni, il miraggio del nuovo oro verde ha contagiato molti paesi dell’America Centrale, oltre al Peru e al Cile nella parte meridionale.

I trasporti implicano nuovi costi che si abbattono sui salari dei coltivatori e dei lavoratori addetti alla raccolta, sui voli e sui viaggi via terra dei Tir.

Ma ci sono anche i miracoli, frutto dell’ingegno di chi non si limita a coltivare, produrre ed esportare.

L’avocado è come il maiale.

Non si butta niente.

Anche il grosso nocciolo interno può essere riciclato.

Grazie all’intuizione di un giovane messicano è diventato la materia prima per realizzare un’alternativa alla plastica, totalmente sostenibile e biodegradabile.

Il progetto si chiama Biofase, nasce nel paese nordamericano. 

Scott Mungia, studente dell’Istituto tecnologico degli studi del Messico, dopo 18 mesi di esperimenti è riuscito a sintetizzare un composto molecolare da cui è stato realizzato un biopolimero ecologico, modellabile e trasformabile in un materiale plastico che della plastica mantiene solo gli aspetti positivi.

Il composto risulta igienico e resistente.

Ma, a differenza della tradizionale plastica, può biodegradarsi in 240 giorni.

Da questo composto sono state create posate, piatti, cannucce e altri oggetti monouso.

La scoperta ha avuto enorme successo.

E’ stata subito acquisita da industrie messicane e attirato l’interesse delle multinazionali.

I cartelli, come sempre vigili, restano a guardare.

Per il momento.

Ma seguono il mercato e sono pronti a nuovi investimenti. Controllano il territorio e sanno essere persuasivi.
 

(Articolo di Daniele Mastrolgiacomo, pubblicato con  questo titolo il 17 ottobre 2020 sul sito online del quotidiano “la Repubblica”)

 

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