Elezioni Usa, countdown per il clima

 

ROMA. Tempo quasi scaduto: il futuro politico dell’Accordo di Parigi sul clima è appeso alle elezioni del Presidente degli Stati Uniti.

Se Donald Trump sarà rieletto, ha già detto che ritirerà il suo sostegno, e senza la forza politica della maggiore potenza globale (nonché primo paese inquinatore), nessun impegno di riduzione delle emissioni nocive può realisticamente essere rispettato.

12 dicembre 2015. 

Durò dodici giorni e dodici notti il negoziato per quell’accordo, firmato con l’adesione di 195 Paesi a Le Bourget, comune dell’Île-de-France a circa 10 chilometri dalla capitale francese.

Ed erano circa le 19.30 quando il presidente della Conferenza e all’epoca ministro degli esteri della République Laurent Fabius pronunciò le parole che avrebbero segnato un punto di svolta nella lotta globale agli effetti del cambiamento climatico: “L’accordo sul clima di Parigi è stato adottato”.

Un applauso liberatorio dell’assemblea plenaria salutò la conclusione delle trattative: “Oggi festeggiamo, ma da domani dobbiamo agire”, commentò l’allora Responsabile Europeo per il Clima Miguel Arias Cañete.

Da allora si sono succedute una serie di date, ciascuna a segnare un passo avanti, e talvolta indietro, rispetto alla realizzazione di quello che Barack Obama definì “una cornice a lungo termine di cui il mondo ha bisogno per risolvere la crisi climatica”.

La prima è il 4 novembre 2016, quando l’accordo entrò ufficialmente in vigore, l’ultima il 1° dicembre 2020, giorno in cui l’Italia assumerà la presidenza del G20 e con essa l’impegno ad attuare finalmente quell’accordo.

In mezzo, tra le altre, il 2021, anno in cui l’accordo dovrebbe essere applicato e il 4 novembre 2020, giorno successivo alle elezioni americane, indicato da Donald Trump come il momento in cui, nel caso fosse rieletto presidente, gli Stati Uniti uscirebbero formalmente dal gruppo dei Paesi aderenti.
Ma quali sono i punti fondamentali dell’accordo? 

Innanzitutto il controllo sul rialzo delle temperature che va contenuto “ben al di sotto” dei 2 gradi Celsius, puntando a un aumento massimo della temperatura a 1,5 gradi centigradi, poi l’impegno a un processo di controllo e revisione da ripetere ogni cinque anni.

A questo proposito si parla di un impegno politicamente vincolante per quanto riguarda il raggiungimento dell’obiettivo, e di un impegno invece giuridicamente vincolante per quanto riguarda l’attuazione delle misure nazionali e la rendicontazione sul livello di raggiungimento degli obiettivi.

Il fatto che i controlli siano autocertificati – a differenza di quanto avevano chiesto gli ambientalisti, che preferivano fossero affidati a organismi internazionali – mostra tuttavia i limiti dell’implementazione di questo punto.

I paesi industrializzati da più tempo hanno inoltre l’onere di erogare cento miliardi all’anno a partire dal 2020 per diffondere globalmente le tecnologie verdi e la decarbonizzazione delle economie.

Questo punto è probabilmente quello che meglio riassume lo spirito dell’accordo, presupponendo, come sintetizzò un ministro indiano, che non si possano “mettere sullo stesso piano gli inquinatori e le vittime dell’inquinamento”.

Logico, dunque, che ci sia una differenziazione nelle responsabilità finanziarie, e anche se restano poco chiari alcuni aspetti, come la contabilizzazione degli aiuti, la loro distribuzione e la ripartizione interna ai Paesi, il segnale lanciato resta incoraggiante nella misura in cui risultano riconosciute le esigenze dei paesi non industrializzati.

L’appuntamento con un nuovo obiettivo finanziario è fissato al 2025, nel frattempo potranno contribuire anche investitori e fondi privati.

L’accordo, infine, inaugura un meccanismo di rimborsi per compensare le perdite finanziarie causate dai mutamenti climatici nei paesi più fragili da un punto di vista della collocazione geografica: impossibile del resto nascondere l’evidenza che alcuni Paesi si ritrovino a fronteggiare più di altri l’impatto con fenomeni meteorologici devastanti, dai cicloni alla siccità, dalle inondazioni al prosciugamento delle terre.

Il futuro dell’accordo di Parigi è oggi nelle mani dei maggiori player internazionali, ma anche nella volontà politica comune a tutti quei Paesi che l’hanno sottoscritto.

Di fronte a un’America che minaccia di fare un passo indietro rispetto a quegli obiettivi, si assiste infatti a una Cina intenzionata ad accelerare sulla strada della sostenibilità, probabilmente anche a causa degli effetti legati alla pandemia. 

Era lo scorso settembre quando davanti all’Assemblea Generale, in occasione dei 75 anni delle Nazioni Unite, Trump tuonava contro Pechino per essere la più grande produttrice di emissioni di carbonio del mondo, definendo l’accordo di Parigi “un accordo unilaterale” e ripetendo la sua intenzione di rescinderlo appena gli fosse stato possibile.

Subito dopo è intervenuto Xi Jinping, annunciando a sorpresa che la Cina avrebbe raggiunto il picco delle emissioni alteranti prima del 2030 e da allora avrebbe iniziato a ridurle per raggiungere la decarbonizzazione totale nel 2060.

Nello scarto di pochi minuti, gli Stati Uniti passarono da secondo Paese inquinatore dopo la Cina, a primo Paese che non ha un obiettivo “emissioni zero”, e dunque a primo inquinatore.

E’ vero che l’accordo di Parigi segnava il confine al 2050, ma è anche vero che un impegno così preciso e responsabile da parte di un Paese come la Cina, fino a quel momento piuttosto scettico rispetto ai risultati della Conferenza di Parigi, non poteva che essere salutato con favore.

Anche perché, a fianco degli impegni dichiarati, la Cina si è mostrata nell’ultimo periodo molto solidale con l’Unione Europea nella definizione degli obiettivi e delle strategie politiche sul clima.

Come prossima presidenza del G20 e copresidenza della Cop26, in partnership con il Regno Unito – disse in quella stessa occasione il Presidente del Consiglio italiano Giuseppe Conte – l’Italia si adopererà per garantire che l’azione per il clima sia alla base di una ripresa dalla pandemia che sia sostenibile, resiliente e inclusiva“.

“A questo scopo – ha aggiunto – la finanza deve svolgere un ruolo cruciale, favorendo il processo di decarbonizzazione dei nostri sistemi energetici e incoraggiando il riorientamento dei flussi di capitali privati verso investimenti sostenibili.

Questa transizione richiederà investimenti senza precedenti, nonché una radicale trasformazione del sistema finanziario stesso“.

Il ruolo dell’Italia sarà tanto più delicato quanto risulta ambiguo quello del Regno Unito, con cui l’Italia condividerà la responsabilità del prossimo summit a Glasgow, che in una fase di ridefinizione delle sue alleanze geopolitiche in seguito alla Brexit appare sempre più legato agli Usa e sempre più lontano dalla Cina.

Compito della mediazione italiana sarà dunque quella di tenere insieme il più possibile il gruppo dei volenterosi, promuovendo la partecipazione e la realizzazione degli obiettivi, possibilmente a una sola velocità.

(Articolo di Francesca Sforza, pubblicato con questo titolo il 21 ottobre 2020 sul sito online del quotidiano “la Repubblica”)

 

 

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