Lanzada on the road

 

Tra cambiamenti climatici e ed epidemie globali la montagna è fra gli ambienti più soggetta a mutamenti e l’anomala estate 2020 ce ne ha dato alcuni assaggi.

Le restrizioni agli spostamenti, la paura dei luoghi affollati, il desiderio di aria incontaminata, hanno indotto molti a scegliere le località montane come meta per trascorrere un fine settimana quando non tutte le vacanze.

Dalle Alpi occidentali alle Dolomiti e anche sugli Appennini si sono registrati numeri da record, e non tutte le località avevano i requisiti per una fruizione di tale portata.

PER CHI VIVE E DESIDERA UN CERTO TIPO di montagna, le lunghe code di macchine, i parcheggi stracolmi, i sentieri affollati, i punti di ristoro presi d’assalto rappresentano un forte disagio e impongono una riflessione su come trovare un equilibrio fra la libertà di accesso a luoghi belli e rigeneranti e la necessità di tutelarne la fragilità, l’unicità, il valore.

L’accesso alle alte quote è cambiato velocemente, moltissimi sentieri negli ultimi tempi sono stati trasformati in piste percorribili su ruota, e se da una parte questo ha consentito il recupero di borghi, una più semplice manutenzione di pascoli e boschi, la rivitalizzazione culturale di luoghi dimenticati, dall’altra ha dato il via a un pericoloso processo di «normalizzazione», come se in montagna si potesse accedere e circolare come in qualsiasi altro luogo.

PRENDIAMO AD ESEMPIO UN FATTO che sta succedendo in Val Malenco, spettacolare valle della provincia di Sondrio, via d’accesso alle vette più alte delle Alpi Retiche, come il Massiccio del Bernina e il Monte Disgrazia, e scrigno degli ultimi ghiacciai superstiti delle Alpi centrali e accessibili come lo spettacolare Fellaria.

Ciononostante una valle, per definizione dei suoi stessi abitanti, non troppo conosciuta e frequentata, almeno fino ad ora, in quanto anche per queste montagne è stata un’estate diversa da tutte le altre: secondo la percezione di alcuni operatori locali rispetto agli anni precedenti è stata frequentata da un numero più che doppio di persone: in molti casi turisti mordi e fuggi, spesso riconoscibili per l’abbigliamento, preparazione fisica e anche atteggiamento non adeguati e che hanno messo alla prova la ricettività locale, costringendo anche a provvedimenti eccezionali per limitare il traffico veicolare.

Un fenomeno in gran parte determinato dalla situazione relativa al Covid-19 ma che appare anche come l’accelerazione di qualcosa che sta già avvenendo e che interroga sull’opportunità o meno di incrementare ulteriormente la viabilità su ruote, quando già si lamentano speculazione edilizia del fondovalle, eccesso di prelievo di acque a fini idroelettrici accanto all’attività estrattiva della pietra ollare.

IL PICCOLO COMUNE DI LANZADA in Valmalenco è intenzionato a realizzare una nuova pista carrabile che permetterebbe di raggiungere in macchina il «Dosso dei vetti», una località a poco più di 1800 metri di altitudine.

Si tratta di un luogo particolarmente suggestivo, prati verdissimi e una manciata di edifici rurali con una magnifica vista su svariate cime (da lì il nome) come il Pizzo Scalino dall’inconfondibile sagoma a cono, sulle enormi dighe di Campomoro, oltre che sulla salita dei «Sette Sospiri», che conduce ai rifugi base di partenza per la scalata al massiccio del Bernina che supera i 4000 metri.

PER I MENO ARDITI LA CAMMINATA può proseguire verso il vasto pianoro del monte Campascio (1850 metri) attraversato dalle acque gelide e limpide del torrente Scerscen, dal nome del ghiacciaio superstite da cui si origina.

La nuova pista andrebbe a sostituire l’antica mulattiera che dal luogo in cui si lascia la macchina conduce al Dosso in una quarantina di minuti.

Il progetto ha suscitato la contrarietà di esperti e professionisti della montagna locali per vari ordini di motivi.

Nello specifico si tratta di un versante instabile dal punto di vista idrogeologico, essendo ripido e roccioso, l’estetica paesaggistica ne verrebbe irrimediabilmente compromessa, inoltre non convincono le motivazioni: si parla di favorire le attività agro-silvo pastorale in quello che è un maggengo dove gli animali non stazionano ma transitano, dove i pochi edifici sono prevalentemente seconde case e non presidi produttivi di alta montagna e quando oltretutto la strada rappresenterebbe il doppione di quella che già raggiunge la località sul versante opposto.

IN TERMINI PIU’ GENERALI SI È APERTA una diatriba che assume i toni di uno sterile scontro fra fronti coalizzati, l’uno a quello «degli ecologisti da salotto intolleranti e retrogradi», l’altro a quello dei «turisti della domenica insensibili e devastatori».

Quella delle strade forestali è una questione complessa e spinosa, che varia da caso a caso e ogni decisione in merito necessita di una discussione specifica che nella maggior parte dei casi manca, sia a livello locale che nazionale.

Fatto ancora più grave, spesso a mancare sono delle valutazioni caso-specifiche in termini economici, strutturali, funzionali: da qui il moltiplicarsi di strade senza criterio, verso alpeggi poi abbandonati o in assenza di bosco o di attività da incentivare, oppure costruite per favorire la manutenzione e poi lasciate abbandonate a loro stesse.

A di là di possibili interessi speculativi, la cui minaccia è sempre presente, emerge come gli enti pubblici, che siano i comuni, le province o le regioni, funzionano più da enti di finanziamento ed erogazione di fondi che di programmazione: tradotto prosaicamente, ci sono i soldi, facciamo il progetto e non il contrario.

Si potrebbero fare centinaia di esempi lungo tutto l’arco alpino ed appenninico, a testimonianza di come dietro decisioni che hanno un costo altissimo in termini di modificazione degli equilibri ecologici e di alterazione del paesaggio non ci sia quella visione strategica di insieme che in questa fase di emergenza e trasformazione è più che mai urgente.

(Articolo di Serena Tarabini, pubblicato con questo titolo il 29 ottobre 2020 su “L’Extraterrestre” allegato al quotidiano “il manifesto” di pari data)

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