«Con la pandemia nel mondo il fenomeno del bracconaggio è aumentato»

 

Le misure per reagire alla crisi del coronavirus hanno ridimensionato le attività di controllo e monitoraggio a protezione della fauna selvatica, soprattutto nei paesi a basso reddito con elevati livelli di povertà, dove peraltro si concentra la maggior parte della biodiversità di fauna e flora, spiega Isabella Pratesi che dirige il programma conservazione del Wwf Italia.

Che impatto hanno le misure anti pandemia sul bracconaggio internazionale, un crimine che danneggia anche le economie in via di sviluppo oltre a provocare perdita di biodiversità e sofferenze?

La nostra lettura è che il fenomeno sia aumentato, anche quello organizzato dalla criminalità, perché si sono ridotte le attività e le presenze di contrasto.

In prima linea, lungo il confine fra lo sfruttamento illegale della natura e la sua protezione, ci sono i guardaparco o ranger, uomini e donne che possiamo definire veri eroi della natura.

Sottopagati, lontani dalla famiglia per gran parte dell’anno, con attrezzature ridotte al minimo, garantiscono la sopravvivenza di specie che altrimenti il bracconaggio e l’uso illegale avrebbero spazzato via; a centinaia in questi ultimi anni sono stati uccisi da gruppi criminali.

Ma, per gestire le misure sanitarie, anche i ranger sono stati in parte distolti dalla loro missione specifica e utilizzati come forza di controllo e polizia, al di fuori dei parchi.

C’è anche carenza di fondi?

La riallocazione del budget e delle risorse da parte dei governi e degli organi di cooperazione di tutto il mondo per affrontare la crisi sanitaria hanno determinato in molti paesi una riduzione del budget destinato alle aree protette, in assenza oltretutto delle entrate economiche legate al turismo naturalistico, il cui indotto è importante per le comunità locali.

Queste ultime contribuiscono alla gestione dei sistemi naturali e sono incentivate a proteggere la biodiversità se in cambio ricevono lavoro e reddito.

La stessa presenza di visitatori, poi, esercitava una forma di controllo indiretto.

Ecco, fra le tante cose che la pandemia ha mandato in crisi c’è anche il lavoro straordinario portato avanti dai ranger, dalle comunità e dalle aree protette.

L’unica strada che abbiamo per proteggere la natura e quindi noi stessi è sostenere il lavoro degli operatori, fermare il bracconaggio e il commercio di animali selvatici.

I lockdown per Covid-19 quanto hanno inciso sulla situazione della fauna protetta?

I sistemi sociali, economici e naturali sono interdipendenti.

Così, soprattutto nei paesi in via di sviluppo le chiusure hanno riportato molte persone dai centri urbani nelle aree rurali, accentuando potenzialmente la pressione sui luoghi che ospitano animali selvatici.

Dovremo verificare se il commercio internazionale di fauna selvatica protetta sia stato rallentato dalla riduzione degli scambi internazionali.

Ma in maggio da vari paesi ci veniva segnalato un aumento dell’ingresso nelle aree protette per caccia e pesca.

Nel Porto di Klang in Malaysia sono state sequestrate 6 tonnellate di scaglie di pangolino africano, piccolo mammifero fra i più cacciati al mondo.

I trafficanti hanno creduto di farla franca, vista l’emergenza.

Purtroppo l’illegalità è un fenomeno imponente, soprattutto sui mercati asiatici.

E le regole non sono ancora stringenti, rispetto ad esempio all’uso di parti di animali nella medicina tradizionale.

Si commercia di tutto, dai cavallucci marini al corno di rinoceronti.

Su questi ultimi le stime arriveranno alla fine di quest’anno, ma ci sono segnali che il bracconaggio non si sia fermato nemmeno nelle aree protette.

Il corno di rinoceronte in certi luoghi continua a essere uno status symbol e un medicinale per la medicina tradizionale asiatica.

Per i (numerosi) nuovi ricchi.

(Articolo di Marinella Correggia, pubblicato con questo titolo il 5 novembre 2020 su “L’Extraterrestre” allegato al quotidiano “il manifesto” di pari data)

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