«Così mi batto per i diritti delle piante»

 

È una vera battaglia di giustizia, quella che Alessandra Viola, giornalista e divulgatrice scientifica, porta avanti per i diritti delle piante.

Anche per questo motivo le è stato assegnato il Premio letterario Gambrinus Mazzotti per Flower Power. Le piante e i loro diritti (Einaudi), un vero manifesto per un mondo più consapevole.

È, inoltre, tra i candidati finalisti del Premio Minazzi «Ambientalista dell’Anno», che domani svelerà il vincitore.

Cosa significa riconoscere i diritti delle piante?

La legislazione ambientale, così come la conosciamo oggi, ha fallito perché le piante non sono affatto tutelate.

E mi chiedo perché non debbano avere diritti riconosciuti.

Quando l’uomo ha voluto difendere all’interno della comunità soggetti a rischio o oggetto di discriminazioni ha introdotto dei diritti.

È il caso, per esempio, dei bambini, quando, dopo la prima guerra mondiale, la Società delle Nazioni promulgò, nel 1924, la Carta dei diritti del fanciullo.

Dopo la seconda guerra mondiale, arrivò la Dichiarazione universale dei diritti umani.

E nel passato ci sono state le carte a difesa delle donne e dei neri fino a quelle più recenti sui diritti degli animali, seppur non pienamente affermati.

Quando qualche soggetto è stato oggetto di forti discriminazioni lo strumento riparatorio giuridico nel sistema internazionale sono stati i diritti.

Da secoli discriminiamo le piante conducendo una guerra con miliardi di morti al giorno, perché continuare a negare loro diritti?

Non c’è motivo scientifico, giuridico, filosofico.

Quelli che dicono «no», perché le piante non soffrono o non sono individui o non hanno volontà, forniscono interpretazioni soggettive e destituite di fondamento.

Le piante soffrono?

A proposito del dolore, anche i movimenti animalisti – gli ultimi nel percorso per l’estensione della nostra considerazione morale a nuovi individui – hanno compiuto sì il grande salto dall’uomo ad altre specie ma hanno posto ostacoli a ulteriori estensioni, centrando la campagna sul fatto che i diritti devono essere allargati dagli uomini agli animali perché anche questi ultimi soffrono.

Un principio, però, arbitrario.

La percezione del dolore è un portato evolutivo, soffriamo per sfuggire ai pericoli.

Una pianta che non può, invece, sottrarsi non ha evoluto questa capacità, ma non esistono ricerche scientifiche che dimostrino se soffrano o meno, perciò dovremmo adottare il principio di precauzione, cardine del diritto ambientale.

Se accettiamo di non sapere, ci dobbiamo comportare come se potessero soffrire.

Tra l’altro, un’università giapponese ha scoperto che le piante, quando una foglia viene rotta, producono un’onda di ioni calcio che si propaga al loro interno, una comunicazione che somiglia al segnale che negli animali trasporta l’informazione del dolore.

Se soffrono lo fanno in modo diverso da noi, ciò che sappiamo è che in caso di danno mettono in campo azioni per ripararlo.

Come sono nati il suo interesse per le piante e la collaborazione con Stefano Mancuso?

Sono una giornalista scientifica, nel 2011 ho iniziato un dottorato di ricerca a Firenze in Scienze agrarie e ambientali con Stefano Mancuso, scrivendo, poi, con lui Verde brillante in cui sosteniamo la tesi dell’intelligenza vegetale.

Lì è nata la riflessione sulle piante come esseri viventi sociali e intelligenti.

Hanno quindici sensi (i nostri cinque sensi più altri), sentono i campi elettromagnetici, l’umidità e la gravità, riconoscono i parenti, stringono alleanze.

Ma finora non ce ne eravamo accorti.

Nel suo ultimo libro Flower Power ci guida a conoscere i più eccezionali «luoghi vegetali» del mondo, ce n’è qualcuno che, in particolare, ci insegna qualcosa di inestimabile?

Mi viene in mente Pando, una foresta di pioppi tremuli nello Utah: un intero bosco composto da un unico essere vivente, ovvero una gigantesca radice con pioppi tutti uguali, fiori di un’unica pianta.

Si tratta di uno dei più antichi esseri viventi che si conoscano, esteso per 43 ettari e con un peso di 6.600 tonnellate, che ha più di 13 mila anni.

Protagonista, dunque, di una resilienza incredibile.

Qual è, invece, la situazione della biodiversità in Italia?

Resta elevata e interessante, motivi per i quali dovremmo intestarci una battaglia per il riconoscimento dei diritti delle piante, l’Italia ha, a costo zero, una posizione di leadership in campo ambientale.

Punta più avanzata del processo di revisione del diritto ambientale che va avanti da 15-20 anni e che ha prodotto legislazioni rivoluzionare.

Ecuador e Bolivia hanno inserito nella loro Costituzione i diritti della natura, un passo oltre rispetto alla tutela del paesaggio, in Nuova Zelanda sono stati riconosciuti i diritti di alcuni fiumi, in India di ghiacciai, in un’area degli Usa c’è stato il riconoscimento della prima specie vegetale di riso selvatico.

Dal diritto della natura dovremmo passare a quello specifico delle piante, essendo costituita da esse per il 90%. La vita dipende dalle piante, difendere i loro diritti è un favore a noi stessi.

Come il cambiamento climatico incide sulle piante e quali azioni bisognerebbe intraprendere?

Migrano, come gli uomini e gli animali, e così stanno affrontano i cambiamenti climatici.

Queste migrazioni accelerano al pari della crescita anomala delle temperature.

Le piante lo fanno attraverso i semi e, nel nostro emisfero, si stanno muovendo da Sud a Nord spostandosi nelle zone più fresche e salendo di quota.

È stato calcolato che il leccio, che vive in un areale Mediterraneo, tra Grecia, Italia e Spagna, tra 50 anni e 60 anni potrà essere nei dintorni di Parigi, ma potrebbe fare fatica a sopravvivere.

Per prevenire estinzioni, in alcuni Paesi stanno avvenendo migrazioni assistite come in Canada, dove il governo ha ripiantato alberi duecento chilometri più a Nord in previsione dei cambiamenti climatici.

In Italia, se le piante che vanno verso Nord vengono sostituite da quelle del Sud il problema è per regioni come la Calabria che a Sud ha il mare.

Arriverà forse qualche palma ma è destinata a desertificarsi.

Stanno aumentando i movimenti a difesa degli alberi?

In tanti mi scrivono, sia singoli che associazioni.

Sta crescendo l’interesse sul tema della loro salvaguardia.

Soprattutto relativamente al verde pubblico, visto che il pubblico negli ultimi anni si è disinteressato di questo enorme patrimonio.

Stiamo cercando di costituire una rete che dia solidità alla proposta di una carta dei diritti delle piante da portare in Parlamento.

Nel 2019 la giuria del Centro Parchi Internazionale le ha conferito il Premio Ambasciatore della Natura. Ora, ha ricevuto per la seconda volta il Premio Gambrinus Mazzotti ed è tra i candidati del Premio «Ambientalista dell’Anno», che effetto le fa?

Sono onorata, è una battaglia che ha bisogno di visibilità, perché le piante sono invisibili.

Ci sono ricerche che dimostrano che se mettiamo una persona di fronte a un’immagine di una scimmia della giungla, questa dirà di vedere una scimmia escludendo tutto il resto dalla percezione.

È quella che si chiama plant blindness, la cecità vegetale da cui dovremmo tutti guarire.

Sono stata contattata dall’Earth Law Center, organizzazione statunitense che difende ecosistemi e mi ha chiesto se voglio intestarmi battaglia, ho proposto di fare causa ai comuni che tagliano gli alberi senza le necessarie verifiche sullo stato salute, tagliando alberi sani.

Gli alberi filtrano aria e acqua e nelle città ci aiutano a proteggerci dallo smog e dal surriscaldamento.

(Articolo di Mauro Ravarino, pubblicato con questo titolo il 3 dicembre 2020 su “L’Extraterrestre” allegato al quotidiano “il manifesto” di pari data)

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