Il nostro futuro migliore amico sarà la “democratura” algerina

Manifestazioni represse, leader in carcere, stampa silenziata

DI FABIO SCUTO, IL FATTO QUOTIDIANO, 16 APRILE 2022

Dalla Corniche “Che Guevara”, disegnata dal genio di Le Corbusier, si gode una magnifica vista della baia di Algeri e dei dock del suo grande porto. Se si osservano con attenzione le grandi navi ormeggiate spiccano soprattutto vessilli russi e cinesi.
È vero che lo Stato algerino trae ricchezza dal commercio del gas con l’Europa, ma è in Russia e in Cina che spende i profitti, Paesi coi quali i rapporti commerciali sono solidi da decenni e interessano diversi ambiti, le armi su tutti, sulle quali lo Stato nato dalla rivoluzione anti coloniale finita nel 1962 investe quasi 5 miliardi di dollari l’anno. È in quegli anni che in Algeria nasce una casta militare che rapidamente esclude i leader civili del Fronte di Liberazione Nazionale come Ahmed Ben Bella e si installa nei palazzi del potere sulle colline che dominano la Capitale. Non ne uscirà mai più: i militari hanno governato direttamente il Paese o l’hanno fatto con un “attore” civile, come in questi tempi dove negli eleganti saloni della Mouradia siede Abdelmadjid Tebboune.
Negli anni il popolo algerino è sceso più volte in piazza – l’ultima fiammata l’Hirak (movimento in arabo) che con le sue proteste nel 2019 ha messo fine al ventennale regime di Abdelaziz Bouteflika – ma senza grandi guadagni in termini di diritti civili. Anzi la situazione è andata peggiorando di anno in anno. Il World Press Freedom Index del 2021, stilato da Reporter Sans Frontiére, colloca l’Algeria al 146° posto su 180 Paesi per la libertà di stampa. Transparency International – che analizza il livello di corruzione – classifica l’Algeria al 117° posto su 180. Il regime ha sfruttato le misure di contenimento della pandemia per sottrarre ai manifestanti dell’Hirak il loro unico potere negoziale – le proteste in strada – e così la “democratura” algerina ne è uscita legittimata ed è apparsa solida agli occhi della comunità internazionale bisognosa del suo gas. Tra le richieste dei manifestanti c’era proprio quella di una maggiore redistribuzione della rendita ricavata da gas e petrolio, un terzo del Pil algerino.
In Algeria lo Stato è ricco, ma il cittadino fatica ad arrivare a fine mese. La gente è stanca di un sistema che alcuni politologi algerini definiscono “autoritarismo elettorale”, ma anche di un modello economico che garantisce l’arricchimento di pochi sulle spalle dei più. Il Fronte di Liberazione Nazionale (FLN), partito unico fino al 1990 e ancora estremamente influente in Algeria, occupa il monopolio dello spazio pubblico: è proprio contro il partito-sistema che il giovane movimento Hirak ha puntato il dito. Le contestate elezioni presidenziali, organizzate alla fine del 2019, non hanno messo fine allo scontro. E la gente ha continuato a scendere in strada per chiedere un cambiamento totale e passare a un regime civile invece che militare. Queste manifestazioni sono state represse ad Algeri e in altre città.
Il presidente Tebboune, appena eletto, aveva promesso una revisione della Costituzione per soddisfare le aspettative dell’Hirak di “una nuova Algeria”. Tentativo fallito in pieno. Il referendum del novembre 2020 ha registrato il più basso tasso di partecipazione (23%), e anche le successive elezioni legislative sono state boicottate dalle opposizioni. Repressione, pandemia e nuovo giro di vite sulle manifestazioni pubbliche hanno spento un po’ la fiamma della protesta. Anche perché molti leader, e non solo loro, sono finiti in cella, dove ancora giacciono.
Secondo il Comitato nazionale per la liberazione dei detenuti oggi in Algeria ci sono 333 prigionieri d’opinione rinchiusi nelle carceri. Il conto viene aggiornato quotidianamente sulla sua pagina Facebook. Nella lista dei detenuti è finito in febbraio anche il portavoce del Comitato, Zaki Hannache. Nel frattempo il Partito socialista dei lavoratori (PST) è stato sospeso e altri due – l’Unione per il cambiamento e il progresso (UCP) e il Rassemblement per la cultura e la democrazia (Rcd) stanno per subire la stessa sorte. Si tratta di tre partiti d’opposizione che svolgono un ruolo attivo nell’Hirak. Inoltre Fethi Gares, leader del Movimento democratico e sociale (Mds), è stato condannato a due anni di carcere per essersi espresso contro la repressione. Il giornale d’opposizione La Liberté dopo 30 anni sta per cessare le pubblicazioni. Amnesty International ritiene che “le autorità algerine vogliano rimanere al potere a tutti i costi e stiano cercando di schiacciare i loro oppositori calpestando i diritti alla libertà di riunione, associazione ed espressione”. È con questi gentiluomini che lunedì il ministro Luigi Di Maio, l’ad dell’Eni Claudio Descalzi e il premier Mario Draghi hanno firmato accordi per garantire “la sicurezza energetica” italiana. Dall’Algeria dipende il 27% del fabbisogno italiano (l’11% di quello Ue): da domani tornerà ad essere il nostro primo fornitore.

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