RIFIUTI. Storia del più grande impianto d’Italia, che ogni anno e per 30 anni è costretto ad incenerire 750 mila tonnellate di rifiuti (più della metà arrivano da fuori) DI MARINO RUZZENENTE, IL MANIFESTO-EXTRATERRESTRE, 12 MAGGIO 22 L’inceneritore di rifiuti è una macchina complessa e costosa: non a caso è sempre stata accompagnata da finanziamenti pubblici, un tempo i cip 6, poi i certificati verdi, ora il Pnrr. L’amministratore delegato di A2A, in un’intervista del settembre scorso, l’ha detto a chiare lettere: per nuovi inceneritori al centro-sud «serve un fondo di garanzia pubblico… per sostenere i costi di investimento per i nuovi impianti e di un servizio che non si può interrompere». QUINDI SOLDI PUBBLICI da un lato e grande dimensione dell’impianto dall’altro per le necessarie economie di scala: A2A lo sa bene, grazie all’esperienza maturata con il più grande inceneritore d’Italia, entrato in funzione alla fine del secolo scorso a Brescia, pagato interamente con i Cip 6 in quell’epoca di euforia inceneritorista. ALLORA I RIFIUTI PROVINCIALI, in assenza di raccolta differenziata, erano circa 450 mila tonnellate, cui si aggiunsero con una evidente forzatura altre 300 mila tonnellate di possibili «biomasse» che in realtà erano rifiuti speciali camuffati: il risultato fu una megamacchina da 750 mila tonnellate annue di rifiuti da incenerire. Scattò così la trappola tecnologica in cui i bresciani si trovano ancora oggi imbrigliati: infatti, se un inceneritore nasce necessariamente sovradimensionato, non per questo poi se ne può ridurre l’utilizzo in funzione del fabbisogno territoriale di smaltimento dei rifiuti a valle della raccolta differenziata, come logica vorrebbe. L’IMPIANTO DEVE FUNZIONARE a pieno regime almeno per i circa 30 anni di vita tecnologica dello stesso, sia per abbattere i costi di gestione, sia perché i forni devono sviluppare il massimo delle temperature evitando fermate e riavvii critici per le emissioni, sia perché va […]
Archivi Giornalieri: 14 Maggio 2022
DI ANTONIO DE LELLIS È’ di tutta evidenza che la guerra, già disseminata in varie parti del mondo, è solo un modo particolare di promuovere i conflitti in un sistema di dominio come quello neoliberista. Ma le guerre ci sono state sempre anche al di fuori del sistema economico attuale. Quindi cos’è che genera la guerra? Ad esempio la sete di potere, l’espansione degli imperi, il metodo della sopraffazione come strumento di regolazione dei conflitti. A ben guardare nel nostro sistema dominante esiste una multiconflittualità a livelli di sopraffazione e annientamento, ad esempio, verso i migranti, i profughi, i poveri, le donne. Se guardiamo attentamente l’epilogo dei principali conflitti armati, essi si estinguono o per vittoria sul campo, o per stanchezza o per esaurimento di risorse economiche da destinare ai medesimi. Una combinazione degli stessi è quasi sempre presente. Alimentare un conflitto come quello che si svolge in Ucraina è senza dubbio possibile se continuiamo a credere che qualcuno vincerà, a finanziare Putin con l’acquisto dei suoi idrocarburi e se diamo armi all’esercito ucraino. Che è il triplo prezzo che noi tutti paghiamo. In termini di riarmo diretto, con il 2% del Pil, indiretto, armando l’Ucraina, e finanziando anche il riarmo della Federazione Russa attraverso le ingenti risorse che trasferiamo per acquisto di gas e petrolio. Ogni guerra però ha il suo retroterra finanziario. Se il sistema finanziario ci guadagna la guerra continuerà. Volete un esempio? Secondo le ultime stime della FAO, emesse l’8 aprile, cioè dopo l’invasione russa dell’Ucraina, il rapporto tra stock e utilizzo di cereali diminuirà solo marginalmente nel 2021-2022. La produzione mondiale di cereali, infatti, aumenterà da 2,78 miliardi di tonnellate nel 2020-2021 a 2,8 miliardi di tonnellate nel 2021-2022. Anche la produzione stimata di grano per il 2021-2022 è diminuita solo marginalmente da 776,6 milioni […]
CONTRADDIZIONI DEL RIMPATRIO DELLE FILIERE CRITICHE. per Biden, la «rivoluzione verde» non è soltanto un modo per salvare il pianeta dai gas serra ma soprattutto il mezzo per affermare la supremazia industriale dell’America sulla Cina DI MARCO DELL’AGUZZO, IL MANIFESTO, 14 MAGGIO 2022 Più di trecento progetti di energia solare previsti per quest’anno negli Usa sono a rischio cancellazione. La causa è l’indagine aperta a marzo dal dipartimento del Commercio, che – su reclamo di un’azienda manifatturiera californiana, Auxin Solar – vuole vederci chiaro sui pannelli importati dal Sud-est asiatico, che valgono ben l’80 per cento delle forniture americane. Washington pensa che dietro alla Malaysia, al Vietnam, alla Thailandia e alla Cambogia si nasconda la Cina, che sfrutterebbe la regione come base produttiva per entrare nel mercato statunitense aggirando i dazi sui dispositivi fotovoltaici cinesi: arrivano fino al 250 per cento, ma di solito si fermano al 30-20. Se l’accertamento dovesse venire sostenuto da prove – un primo verdetto ci sarà a fine agosto –, l’amministrazione Biden potrebbe applicare dazi anche verso quella parte d’Asia. Le tariffe saranno retroattive e ammonteranno a un massimo di 3,6 miliardi di dollari, secondo una recente stima della società di consulenza energetica Rystad Energy. Il timore dei dazi, combinato alle confische di componenti sospettati di provenire da Hoshine Silicon, compagnia cinese messa al bando perché accusata di sfruttare il lavoro forzato degli uiguri, ha però già spinto gli operatori americani del settore solare a ripensare i loro piani. Per raggiungere gli obiettivi della Casa Bianca sul dimezzamento delle emissioni al 2030 e sulla decarbonizzazione della rete elettrica al 2035, le installazioni di capacità rinnovabile negli Stati Uniti dovranno aumentare molto, e in fretta: solo di fotovoltaico sono necessari circa 50 gigawatt all’anno da oggi a fine decennio. Il 2022 avrebbe dovuto dare un contributo importante, […]
DI PATRIZIA DE RUBERTIS, IL FATTO QUOTIDIANO, 14 MAGGIO 2022 Ogni nuovo dato non fa che ribadirlo: il combinato disposto tra i rincari dell’energia e le difficoltà di reperimento delle materie prime finisce per influire sui prezzi al dettaglio, impattando anche sui beni alimentari con il costo del cibo ai massimi degli ultimi 11 anni. Ma ben presto, secondo la Fao, si raggiungerà il picco storico toccato a metà degli anni 70. Un allarme serio: non si tratta più di singoli prodotti, per quanto importanti, ma dei rincari delle stesse materie di base delle coltivazioni e della produzione globale che si ripercuotono lungo tutto la filiera.Secondo le rilevazioni sugli importi pagati dall’industria alimentare della grande distribuzione organizzata, i prezzi mostrano un aumento del +2,1% a marzo per la media dei 46 prodotti alimentari maggiormente consumati, con una crescita però che si porta al +10,9% se andiamo a guardare i prezzi medi del marzo 2021. I prezzi di cibi e bevande sono aumentati in media del 6,3% e in cima alla classifica stilata da Coldiretti ci sono gli oli di semi, soprattutto quello di girasole, aumentati del 63,5%, la farina (+17,2%, trainata dagli aumenti del grano) e il burro (+15,7%). Rincari a doppia cifra anche per la pasta (+14,1%) con la corsa agli acquisti nei supermercati per fare scorte, seguita dalla carne di pollo (+12,2%). Non va meglio coi prezzi di verdura fresca ( +17,8%), frutti di mare (+13) e pesce fresco (+7,6%). In salita anche il latte in polvere per neonati con alcune marche che cominciano a scarseggiare: la produzione è ferma e si sta dando fondo ai magazzini.Questi aumenti rischiano di affamare sempre più le famiglie italiane, mentre l’inflazione ha già allargato la platea di quelle povere non più in grado di sostenere le spese essenziali. Volano non a […]