L’acidificazione degli oceani stacca le cozze dagli scogli

 

Cozze

Fino ad oggi la salda presa delle cozze sugli scogli è stata sinonimo di tenacia e resistenza, o magari eccessiva invadenza.

In futuro però le cose rischiano di cambiare profondamente: tutta colpa dell’acidificazione degli oceani, un fenomeno legato (come il riscaldamento globale) alla crescente quantità di CO2 che immettiamo nell’atmosfera, e che rende sempre più difficile per le cozze aderire alle superfici con forza sufficiente a sopportare onde e correnti.

Un pericolo dunque per la sopravvivenza di questi molluschi, che potrebbe avere un impatto catastrofico sugli impianti di mitilicoltura.

A suggerirlo è uno studio dell’Università di Washington, presentato nel corso del congresso annuale della Society for Experimental Biology.

La capacità di ancorarsi agli scogli, in effetti, è fondamentale per la sopravvivenza delle cozze.

Si tratta infatti di molluschi che trascorrono la loro esistenza nelle acque superficiali, dove onde, maree e forti correnti li tengono al riparo dai predatori.

Proprio per questo motivo, una volta staccatisi dal loro punto di ancoraggio sono condannati: precipitano verso il fondale, dove diventano facile preda di crostacei, pesci e altri predatori.

Una scena che, purtroppo, in futuro potrebbe diventare sempre più comune.

  Le ricerche degli scienziati americani hanno dimostrato infatti che per ancorarsi con la dovuta forza alle rocce (o altri sostrati su cui si trovano a crescere, che siamo boe, cime o reti utilizzate per l’allevamento) le cozze hanno bisogno di un particolare livello di ph nell’acqua (un indice che misura l’acidità di un liquido).

E con mari e oceani che diventano sempre più acidi a causa della CO2 prodotta dall’uomo (che in mare si trasforma in acido carbonico, aumentandone l’acidità e diminuendo di conseguenza il ph), le condizioni in tutto il globo stanno diventando sempre meno favorevoli per i mitili.

  “I nostri dati sono ancora preliminari – spiega Emily Carrington, ricercatrice della University of Washington che ha coordinato lo studio – ma dimostrano che i filamenti con cui i mitili si ancorano agli scogli diventano più deboli quando il ph delle acque scende al di sotto di un valore di 7,6“.

L’effetto inoltre è proporzionale al diminuire del ph, e intorno ad un ph 5 (valore minore esaminato nello studio), la capacità di adesione delle cozze scende circa del 25%.

Oggi, ricorda la ricercatrice, il ph degli oceani è circa a 8 (anche il Mediterraneo ha valori simili), ma si prevede che scenderà a 7,8 entro la fine del secolo.

Si tratta però di valori medi, e in molte aree i livelli sono già oggi molto inferiori, e vicini a quelli indicati come un pericolo dallo studio.

Non è facile però prevedere con precisione quali saranno gli effetti dell’acidificazione sulle popolazioni di cozze che abitano le diverse aree del pianeta, perché i danni possono variare da specie a specie e dipendono anche da altri parametri, come la temperatura e la presenza di predatori.   Dalle ricerche di Carrington è emerso ad esempio che il Mytilus trossulus diffuso nelle baie degli oceani americani ha problemi anche con le temperature più alte.

In acque che superano i 18 gradi crea filamenti troppo deboli, e per questo la ricercatrice ritiene che nei prossimi decenni potrebbe patire la competizione di altre specie di cozze forestiere.

Qualche esempio?

Carrington cita quello del Mytilus galloprovincialis, terribile specie invasiva, che altri non è che la cozza nostrana, un mollusco mediterraneo che almeno per qualche tempo potrebbe approfittare dell’innalzamento di temperatura degli oceani per espandersi in nuovi territori.

 

(Articolo di Simone Valesini, pubblicato con questo titolo l’11 luglio 2016 sul sito online del quotidiano “la Repubblica”)

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