GENERAZIONE FENOGLIO

 

Quello che mi stupisce, ogni giorno di più, è l’affetto dei suoi lettori.

Credo che gli avrebbe fatto piacere, se fosse ancora qui.

Soprattutto quando arriva dai più giovani.

Ragazze che vogliono sapere se — alla fine di Una questione privata — Milton muore oppure no.

Ragazzi che gli lasciano un biglietto con scritto “Grazie a te ho passato la maturità!”.

Ho saputo di due sposi in viaggio di nozze sul lago Maggiore che hanno fatto, all’ultimo momento, una deviazione — duecento chilometri! — per passare da Alba.

E c’è spesso chi lascia, sulla sua tomba, una sigaretta.

Una sigaretta?

«Sì, è un omaggio allo scrittore e al fumatore.  

Una volta ne ho trovate due, posate accanto alla lapide: un mozzicone e una intatta.  

C’era anche un biglietto: “ Io non fumo più, ma avevo voglia di fumarne una con te”».

Margherita Fenoglio vive ad Alba, in provincia di Cuneo, fa l’avvocato.

Ha avuto accanto suo padre Beppe solo per un paio d’anni.

Fenoglio è morto nel febbraio del 1963, quarantenne: lei aveva due anni.

La sua fortuna di scrittore è quasi tutta postuma.

Oggi è fra gli autori del Novecento italiano più amati, il vero classico sulla Resistenza, sempre più letto e tradotto: in più di venti lingue, dal Sudamerica alla Corea del Sud.

Al Centro Studi Fenoglio di Alba arrivano migliaia di lettori e studiosi ogni anno.

Sul quaderno degli ospiti, due coniugi italiani residenti a Boston hanno scritto: «Qui siamo fieri di essere italiani».

«So di essere comunque un’orfana privilegiata», dice Margherita.

«Chi resta senza genitori da bambino, il più delle volte, sente di sapere troppo poco, di vivere solo un’assenza.  

Per me, mio padre è invece una presenza massiccia, costante, direi quotidiana.  

Anche molto impegnativa.  

Ma mi considero — per quanto riguarda la sua figura di scrittore — solo una lettrice più coinvolta».

Che effetto le ha fatto la prima lettura dei libri di suo padre?

«La malora è stato il primo suo romanzo che ho letto.

Parlava di un mondo che non era per me così lontano.  

Ho sempre vissuto in città, ad Alba, ma sapevo cos’era la vita in collina, la durezza di quella vita.  

La malora è il libro a cui forse era più legato.  

Aveva patito il risvolto di copertina negativo scritto da Vittorini e l’accoglienza fredda della critica, ma a mia madre una volta disse: “ti rendi conto, Boba, che se non avessi scritto La malora nessuno fra cinquant’anni saprebbe più com’era la vita nella Langa?”  

Quanto al Partigiano Johnny, letto a sedici anni, mi sembrò difficile. Più tardi me ne sono innamorata».

Uscito postumo nella tempesta del ’68, si è imposto sui romanzi usciti negli anni Quaranta (Pavese, Vittorini, Calvino).

«In termini numerici, di vendite, cresce di anno in anno.  

È un romanzo impegnativo, ma credo che la fascinazione nasca da più elementi. 

L’incompiutezza.  

Lo stile, così insolito.  

Lo sguardo, antiretorico al limite della spietatezza, sullo spaesamento morale seguito all’8 settembre e sulla guerra civile.  

La stessa espressione “guerra civile”, che lo storico Claudio Pavone avrebbe sdoganato negli anni Novanta, mio padre avrebbe voluto usarla per i suoi racconti quando suonava blasfema.  

Ma penso che la fortuna del Partigiano Johnny sia dovuta soprattutto al suo essere un romanzo sull’esistenza prima ancora che sulla Resistenza.  

Al modo in cui pone il tema della scelta: la necessità, l’irrinunciabilità della scelta. La solitudine del momento in cui scegli».

Come in “ Una questione privata”, che presto sarà un film dei Taviani, tutto è calato in una prospettiva individuale, emotiva, perciò umanissima.

«Chi voleva la Resistenza “ cantata” non poteva amare i libri di mio padre.  

Se sul piano stilistico gli veniva rimproverata l’anomalia — così poco italiano, troppo cinematografico —, su un piano ideologico era ancora più difficile digerirlo.  

Ha precorso troppo i tempi?  

Non sta a me dirlo.  

So solo che molti mi parlano di Johnny o di Milton, e di Fenoglio stesso — chiamandolo Beppe, per nome – , come di modelli, di miti della propria formazione, non solo letteraria.  

Quanto a Fulvia, la protagonista di Una questione privata, so che ogni ragazza, leggendo, vorrebbe essere lei» .

Molti giovani scrittori oggi l’hanno scelto come maestro…

«Scopriamo di continuo fan insospettabili, tra i nuovi scrittori italiani, e li invitiamo ad Alba.  

Giacomo Verri, trentanovenne, ha evocato esplicitamente la lezione fenogliana nel suo Partigiano Inverno.  

Emiliano Gucci, l’anno scorso, ha letto in pubblico una lettera a Beppe: “Raccontavi a me, di me, ti occupavi dei miei sentimenti, di mettere su pagina le mie emozioni, la mia vita”».

Ma Milton, secondo lei, nel finale del romanzo sopravvive o muore?

«Da adolescente appassionata ai classici russi, con animo tragico avrei detto che muore. Oggi penso che viva».

Secondo lei come sarebbe stata la vita di Fenoglio dopo i quarant’anni?

«Avrebbe voluto scrivere e basta.  

Come è noto, per vivere lavorava in una casa vinicola.  

Ma era consapevole del proprio valore.  

So di scontri apocalittici con mia nonna, che non considerava scrivere un mestiere.  

Ma per lui scrivere era tutto, e a sua moglie affidava tutti gli aspetti pratici della vita.  

In cucina non metteva piede, una volta si era ustionato con una caffettiera.  

Di mia madre scherzosamente diceva: “Boba, o della pastasciutta”.  

E di sé: “Beppe, o della malinconia”.  

È stata mia madre a tenermi sempre con i piedi per terra: “Sei nata da lui, mi diceva, e devi considerarla una fortuna, ma non hai meriti”. 

Ogni tanto penso che qualcosa in più di lui so farla: so guidare ( lui saliva su una Vespa guidata da mia madre stringendosi a lei spaventato), so fare le percentuali e le divisioni con le virgole.  

Una volta che gli dissero “ buongiorno ingegnere”, fu molto orgoglioso.  

Aveva frequentato Lettere ma senza laurearsi.  

Mia madre gli disse: “ Be’, in effetti un uomo di ingegno lo sei”».

Mai avuto la tentazione di scrivere, quindi?

«Io? 

Mai.  

C’è una grande differenza tra scrivere bene e essere scrittori».

C’è una pagina di suo padre che le sta più a cuore?

«Non è in un romanzo, è la commemorazione funebre di un partigiano morto diciannovenne a Valdivilla, Dario Scaglione detto Tarzan.  

Il discorso per l’intitolazione di una strada: “ Quel rettangolo di metallo — Corso Dario Scaglione — sarà come tanti altri un monumento alla libertà il cui possesso c’è costato lui e tanti altri come lui.  

Sarà una pagina aperta a chi vuole e verrà dove noi e i venturi leggeremo le parole che non sono soltanto parole bellissime a scriversi e a leggersi, ma che sono la gloria della vita” » .

E una via Beppe Fenoglio esiste?

«Ce ne sono moltissime, da nord a sud, dalla provincia di Cuneo a quella di Catania»

 

(Articolo di Paolo Di Paolo, pubblicato con questo titolo il 23 aprile 2017 su “la Repubblica”)

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