Per un’ economia circolare (e sovversiva?)

 

Emanuele Bompan con Ilaria Nicoletta Brambilla, Che cosa è l’economia circolare (Edizioni Ambiente, 2016)

È una buona domanda quella posta nel titolo del libro Che cosa è l’economia circolare (Edizioni Ambiente, 2016) scritto da Emanuele Bompan con Ilaria Nicoletta Brambilla e arricchito dall’introduzione di Antonio Cianciullo, direttore della rivista “Materia rinnovabile” e voce autorevole sui temi della sostenibilità, dell’ambiente e del riciclo dei materiali.

Comincerò dalla risposta contenuta nel libro stesso elaborata sulla base delle definizioni dei più autorevoli studiosi di questo relativamente giovane capitolo delle scienze economiche.

Quella circolare – scrivono gli autori – è «un’economia pensata per potersi rigenerare da sola. In un’economia circolare – proseguono – i flussi di materiali sono di due tipi: quelli biologici, in grado di essere reintegrati nella biosfera, e quelli tecnici, destinati ad essere rivalorizzati senza entrare nella biosfera» 

Il tutto – si precisa – nell’alveo dell’economia di mercato.

La definizione considera giustamente due tipi di flussi.

La vita, infatti, “funziona” con un grande flusso di materie e di energia dai corpi naturali – aria, acqua, suolo – agli esseri viventi e di nuovo agli stessi corpi naturali.

I vegetali “fabbricano” – e non a caso gli ecologi li hanno chiamati organismi produttori – le proprie molecole organiche utilizzando l’energia solare, l’anidride carbonica dell’aria e l’acqua e l’azoto del suolo, e liberano ossigeno che viene immesso nell’atmosfera.

Analogamente, gli animali si nutrono ricavando le molecole nutritive dai vegetali (e da altri animali) e l’ossigeno dall’aria (organismi consumatori).

Nel corso del loro metabolismo liberano anidride carbonica che immettono nell’aria ed escrementi nel suolo.

Alla fine della loro vita, vegetali e animali cedono le loro spoglie al suolo e alle acque dove innumerevoli organismi decompositori si impadroniscono delle loro molecole e le trasformano in atomi e molecole che sono di nutrimento ad altri organismi viventi.

Produttori vegetali, consumatori animali e decompositori sono i grandi protagonisti del dramma della vita che si svolge nella biosfera, il grandissimo, ma non infinito, palcoscenico del regno della natura.

Nel mondo naturale praticamente non esistono rifiuti perché ogni sostanza usata dagli esseri viventi ritorna disponibile per altri esseri viventi nei grandi cicli geochimici – sostanzialmente chiusi – della biosfera.

L’economia circolare riguarda anche i flussi “tecnici” di materiali, quelli legati alla produzione e al consumo delle merci, proponendosi la loro rivalorizzazione, il loro riutilizzo, per evitare che rientrino nella biosfera.

Tutti i fenomeni economici e sociali, tutte le attività di produzione e consumo di merci e servizi, sono basati anch’essi su flussi di materia e di energia che cominciano dalla biosfera – il serbatoio delle risorse naturali, inorganiche e organiche – passano attraverso la singola abitazione, i campi coltivati, la fabbrica, la città, il territorio antropizzato, e ritornano, più o meno presto, nei corpi riceventi naturali sotto forma di materia gassosa, liquida o solida, delle scorie e dei rifiuti.

Analogo processo avviene anche per i servizi che sono sempre, direttamente o indirettamente, legati alla circolazione di materia.

La nota promessa di un mondo immateriale o virtuale è abbastanza ingannevole se tende a far credere che la società del futuro non avrà bisogno di materiali (o gliene serviranno pochi).

Cosa che vale anche per il termine “consumo” perché in realtà ciascuna persona non “consuma” gli oggetti, i beni materiali, le merci che usa, ma ne modifica solo la materia e l’energia in altre forme, poi dissipate nell’ambiente naturale circostante.

I processi tecnici, quindi, consistono nella circolazione natura-produzione-merci-uso-scorie-natura.

Si potrebbe scrivere una vera e propria “storia naturale delle merci”, raccontare la “produzione di merci a mezzo di natura”.

Le analogie con i fenomeni biologici non devono meravigliare: i fenomeni economici e sociali non sono altro che uno dei volti con cui si manifesta la vita degli “animali” umani.

Quelle che devono essere rivalorizzate dall’economia circolare, per evitare il rientro nella biosfera, sono le scorie, inevitabile risultato dei flussi tecnici.

Sarà quindi utile conoscere bene le diverse materie per scegliere le soluzioni più opportune, tanto più che esse variano continuamente nel tempo.

Dai tempi della rivoluzione agricola del Neolitico, e in grado sempre più intenso dai tempi della rivoluzione industriale del XVII secolo, gli esseri umani traggono le materie prime per i loro processi sia dai cicli della biosfera sia da materiali immagazzinati nel corso delle ere geologiche precedenti: minerali, carbone, petrolio, gas naturale.

La fabbricazione di metalli, macchinari, prodotti chimici, abitazioni o la produzione di energia richiedono perciò anche materiali che non si formeranno mai più in natura, almeno nei tempi prevedibili della vita degli esseri umani.

Quindi i processi di produzione lasciano, dietro a sé, un vuoto che corrisponde a un irreversibile impoverimento delle risorse della natura.

Inoltre, nel corso della produzione dei beni materiali, le risorse tratte dalla natura in parte si trasformano nei manufatti e nei servizi di cui si occupa la scienza economica, in parte vengono scartati come scorie e rifiuti.

La massa di questi ultimi è molte volte superiore a quella degli oggetti di cui si occupa l’economia e le loro caratteristiche chimiche e fisiche sono tali da non permetterne la scomposizione e assimilazione da parte dei cicli della biosfera: sono, appunto, non biodegradabili.

I rifiuti non biodegradabili, quando sono immessi direttamente nei corpi riceventi naturali, ne modificano la “qualità”, cioè la possibilità di essere utili ad altri.

Per evitare questo l’economia circolare propone di sottoporli a processi di trattamento, depurazione o riciclo che possano generare, eventualmente, beni materiali utili.

In altri termini, a differenza dei processi sostanzialmente “chiusi” della vita, della biosfera, i processi tecnici ed economici – quelli che si svolgono nella parte della biosfera modificata dagli esseri umani – risultano “aperti” nel senso che ciascuno si lascia alle spalle una natura impoverita e contaminata.

L’economia circolare si propone di alleviare la preoccupazione che, continuando a sottrarre risorse naturali dalla biosfera e ad immettere scorie nella stessa, si arrivi a un giorno in cui alcune di queste risorse saranno esaurite o diventeranno scarse tanto da diventare fonte di conflitti per la loro conquista, o che i corpi riceventi naturali vengano intossicati al punto da non essere più utili ai fini della vita.

Fenomeni questi che, nel corso della storia, si sono verificati molte volte e si stanno verificando tuttora in modo sempre più vistoso.

La scoperta di questa situazione potenzialmente insostenibile – che, evidentemente, non potrà durare a lungo – non è nuova e il libro di cui stiamo parlando fa un’opportuna lunga trattazione dei “precursori” dell’economia circolare che risale anche a prima dell’invenzione di questa espressione.

Tra gli autori di cui si parla è inevitabile citare Barry Commoner (1917-2012) che nel 1971 pubblicò un libro intitolato The closing circle. Nature, Man, and Technology – in italiano Il cerchio da chiudere. La natura, l’uomo e la tecnologia (Garzanti, 1972) – mettendo in evidenza, appunto, che i cicli delle merci industriali sono aperti, anzi sempre più aperti, a mano a mano che vengono introdotti materiali estranei alla natura, non biodegradabili – come le materie plastiche o molti pesticidi e prodotti sintetici – con conseguente inquinamento della biosfera.

Commoner era un biologo ma anche gli economisti si stavano accorgendo del problema.

Joseph Spengler (1902-1991), per esempio, inaugurando il congresso dell’American Economic Association del 1965 aveva affermato che quella di allora – e la cosa vale ancor più per quella di oggi – avrebbe dovuto essere chiamata non “società opulenta” ma “società dei rifiuti”.

Nell’espressione in lingua inglese c’è un gioco di parole fra “affluent society” – il titolo di un, allora, celebre libro di John Kenneth Galbraith, tradotto in italiano nel 1959 da Edizioni di Comunità con il titolo Economia e benessere e riedito nel 2014 con il titolo La società opulenta – e “effluent society”, appunto la società che fa uscire dal proprio corpo un profluvio di scorie.

La parte più interessante del libro di Bompan e Brambilla è dedicata ad alcune delle “ricette” – se così le possiamo chiamare – con cui si potrebbe, volendo, chiudere (un poco) il ciclo delle merci.

Alcune di queste sono quelle tradizionali del riciclo dei rifiuti che prevedono che una parte della materia contenuta nelle merci possa essere ritrasformata in nuove merci.

Nel caso di merci relativamente semplici tale operazione è già praticata con successo e potrebbe essere ulteriormente perfezionata ed estesa.

Dalla carta straccia si può recuperare la cellulosa con cui ottenere altra carta.

Dal vetro usato, per fusione, può essere recuperato altro vetro.

Questo, però, con un’avvertenza.

Il riciclo avrà tanto più successo quanto più “pulito” è il rifiuto.

La carta dei giornali usata è costituita da cellulosa “sporcata” con l’inchiostro che ha “trasportato” l’altro valore del giornale, l’informazione.

Il riciclo presuppone che la carta del giornale sia “liberata” in qualche modo dall’inchiostro.

Se esistesse un “diavoletto di Maxwell” per la materia, questo riuscirebbe a separare l’inchiostro dalla carta e fornirebbe cellulosa pura da ritrasformare in nuova carta e inchiostro da riutilizzare per nuove stampe.

L’informazione, invece, andrebbe persa.

Purtroppo il “diavoletto di Maxwell” non esiste per l’energia e tantomeno per la carta.

Il riciclo porta così a recuperare solo una parte della carta iniziale.

Lo stesso vale per il vetro.

Da quello colorato è possibile recuperare soltanto vetro dello stesso colore, un’operazione che avrebbe qualche successo soltanto se fosse possibile sottoporre a riciclo tutte le bottiglie di vetro dello stesso colore ed esattamente della stessa composizione chimica, cosa di difficile attuazione anche con la più volonterosa raccolta differenziata.

Il problema si fa più difficile con le merci complesse.

Da un autoveicolo rottamato è possibile recuperare alcune componenti – ferro, alluminio, rame, plastica, gomma – soltanto dopo che questo è stato scomposto nelle sue varie parti.

Lo stesso vale per le materie plastiche che possono essere recuperate soltanto se sono rigorosamente della stessa natura e composizione.

E vale per gli stessi pneumatici dei cui cicli di recupero parla il libro.

Le loro varie componenti – gomma, telatura, sostanze di carica – possono essere recuperate solo in parte e spesso destinate a un uso merceologicamente più modesto, come la trasformazione in pavimentazioni o pneumatici ricostruiti.

Il successo di ciascuna operazione di riciclo presuppone dunque una buona conoscenza di ciascuna merce usata: da quali materie prime è stata ottenuta, con quale ciclo produttivo, quali modificazioni chimiche ha subito durante l’uso e così via.

Una vera “merceologia dei rifiuti” che richiederebbe tecniche di analisi ancor più raffinate di quelle utilizzate per i controlli delle merci nuove [Per qualche informazione in più sulla “rifiutologia”, vedi G. Nebbia, La rifiutologia: un nuovo capitolo della merceologia, in: R. Molesti (a cura di), Economia dell’ambiente e bioeconomia, (Franco Angeli, 2003)].

I più comuni esempi di economia circolare riguardano merci destinate al consumo, ma molto può essere fatto anche nell’ambito dei cicli produttivi, agricoli o industriali, nei quali si formano residui talvolta responsabili di significativi inquinamenti.

I casi esemplari sono piuttosto numerosi perché da sempre gli imprenditori si sono affannati a recuperare tutto quello che era possibile dai sottoprodotti e dai rifiuti.

Questo sia per guadagnare di più, sia per evitare condanne per inquinamento che le legislazioni nazionali e internazionali prevedono con sempre maggiore frequenza.

Addirittura, alcuni nuovi materiali o prodotti sono stati scoperti proprio immaginando possibili riutilizzi degli scarti.

Il caso più noto riguarda la prima produzione chimica industriale, estremamente inquinante, del carbonato sodico, la soda artificiale, l’agente lavante che sostituiva la soda ricavata dalle piante e dalle alghe.

Nicolas Leblanc (1742-1806) aveva messo a punto nel 1793 un processo che prevedeva il trattamento del sale con acido solforico e comportava la liberazione di acido cloridrico, per decenni scaricato nell’atmosfera con danni alla salute e alle coltivazioni.

Il solfato di sodio veniva poi trattato con calce e carbone.

Insieme al carbonato di sodio si formava un fango di solfuro di calcio che era depositato in discariche all’aria aperta da cui si liberava idrogeno solforato puzzolente e soprattutto nocivo.

Le proteste popolari nel 1863 costrinsero il Parlamento britannico ad emanare l’Alkali Act che imponeva alle fabbriche di soda di evitare le emissioni inquinanti.

Dapprima gli imprenditori furono costretti a raccogliere l’acido cloridrico in acqua entro dei barili, fino a quando Walter Weldon (1832-1885) inventò nel 1873 un processo per trasformare l’acido cloridrico in cloro, una nuova merce che cominciò una marcia trionfale nell’industria.

L’acido cloridrico diventava così “materia seconda” per un altro ciclo produttivo.

L’inquinamento dovuto ai fanghi di solfuro di calcio fu risolto nel 1882 da Carl Claus (1827-1900), con un processo che consentiva di utilizzarli come “materia seconda” per un ciclo che, mediante ossidazione, permetteva di recuperare anidride solforosa per la produzione di acido solforico, una delle materie prime dello stesso processo Leblanc.

In ogni caso, i due processi arrivarono tardi perché nel frattempo Ernst Solvay (1838-1922) aveva inventato nel 1864 un altro processo che produceva il carbonato di sodio con un rifiuto costituito da cloruro di calcio, ingombrante e scomodo da smaltire, ma meno dannoso dei rifiuti del processo Leblanc, e per il quale fu trovato un impiego nello spargimento sulle strade per ritardare la formazione del ghiaccio dalla neve.

Gli esempi di “storia del riciclo” – ma forse sarebbe più corretto dire “storia dell’economia circolare” – che si potrebbero fare sono numerosi: si tratta quindi di un interessante capitolo della “storia della tecnica e delle innovazioni”.

Ma torniamo al libro di Bompan e Brambilla che contiene altre “ricette” di economia circolare di grande interesse in virtù delle quali si potrebbero fare davvero grandi progressi.

Una riguarda la vita delle merci e dei prodotti.

Un oggetto durante l’uso si consuma e si usura: pensiamo ai frigoriferi o agli altri elettrodomestici, alle automobili, ai mobili.

Talvolta la vita è accorciata dalla comparsa sul mercato di altri modelli più funzionali o semplicemente più attraenti per cui oggetti ancora utilizzabili vengono sostituiti andando a unirsi al popolo dei rifiuti (per fare un solo esempio, le macchine per scrivere che sono state soppiantate dai computers).

Il carico di rifiuti nella biosfera potrebbe essere alleggerito se tutti questi oggetti fossero progettati per durare a lungo o, in alternativa, se fossero facilmente riparabili.

Una maggiore standardizzazione di alcune componenti, per esempio, consentirebbe di prolungarne la vita attraverso la sostituzione delle parti consumate o danneggiate.

Un’altra interessane “ricetta” riguarda la possibilità di sostituire il possesso di un bene con l’uso, quando occorre, dello stesso bene posseduto da altri.

L’automobile, per esempio, è un oggetto che spesso viene utilizzato per poche ore al giorno.

Il resto del tempo resta immobile a occupare spazi pubblici o privati.

Se si potesse utilizzare un’automobile nelle ore in cui ci si deve spostare lasciando il veicolo a disposizione di altri nelle altre ore, il consumo di materiali e di spazio diminuirebbe significativamente.

Per inciso questa proposta era stata fatta nel 1971 da Aurelio Peccei – l’imprenditore e intellettuale che fondò il Club di Roma – in un poco noto articolo intitolato Automobile: il crepuscolo di un idolo [A. Peccei, Automobile: il crepuscolo di un idolo, trad. it. dalla rivista francese “Preuves”, n. 6, II semestre 1971, in”CNS”, a. XII, fasc. 50, n. 10, novembre 2002 e ora pubblicato sul sito web di Arianna Editrice].

Interessante anche l’osservazione che il concetto di riutilizzo vale anche per lo spazio edificato.

Molto spazio non è utilizzato o è abbandonato e potrebbe essere riattivato in modo da evitare nuove costruzioni che contribuiscono a impoverire la natura con l’estrazione di materiali e con l’occupazione di altro spazio.

Purtroppo non è possibile far tornare nella biosfera tutta la materia entrata nei cicli “tecnici”.

Anche il solo fatto di usare un oggetto comporta un peggioramento della sua qualità merceologica e l’impossibilità fisica di ricostruirne le proprietà di partenza.

L’economista Nicolas Georgescu-Roegen, ha scritto che il degrado della materia durante l’uso equivale a quello imposto dal secondo principio della termodinamica all’energia, per cui alla fine di ogni trasformazione è minore la sua quantità “utile”.

E ha proposto un “quarto principio” con cui spiega che è impossibile il riciclo all’infinito della materia.

In altri termini, è impossibile chiudere qualsiasi ciclo che coinvolge la trasformazione della materia.

Per concludere, va fatta un’ultima osservazione.

Il grado di impoverimento della biosfera a causa della sottrazione di materie richieste dai processi tecnici e il grado di contaminazione della biosfera a causa della immissione di rifiuti è inevitabile conseguenza di una società – quella del mercato – basata sulla necessità di produrre sempre più merci non perché soddisfano bisogni umani ma perché fanno crescere la ricchezza privata e pubblica e assicurano occupazione e salari che consentono l’acquisto di altre merci, e così via.

Per fare qualche passo verso la “liberazione”, almeno parziale, dai rifiuti bisognerebbe cominciare a chiedersi: che cosa sto comprando – che sia conserva di pomodoro o una cucina, gasolio o il sacchetto di plastica per la spesa – come è fatto?

Dove è stato fatto?

Con quali materie?

Dove finirà quando non servirà più?

È strettamente necessario?

Ci sono alternative?

Non si tratta di auspicare una società povera, ma austera sì, anche perché le merci “consumate” sono fabbricate portando via dalla natura acqua, minerali, prodotti forestali, impoverendo la fertilità dei suoli, beni sottratti “ad altri”.

Molte merci e risorse che soddisfano la nostra insaziabile fame di “consumi” sempre più mutevoli e superflui sono “rubate” ad altri che alla fine si arrabbiano.

Si arrabbiano i popoli che non hanno accesso ai beni primari per l’esistenza.

Si arrabbia la natura perché i crescenti consumi e rifiuti alterano i suoi lenti e duraturi cicli.

La vera ricetta sta quindi nell’usare le conoscenze tecnico-scientifiche per comprendere meglio i cicli della natura e per richiudere, almeno in parte, quelli più brutalmente rotti dall’avidità della nostra società.

Forse senza rendersene conto, i sostenitori dell’economia circolare scavano la fossa sotto i piedi del sistema capitalistico: far durare di più gli oggetti, riparare le merci consumate, condividere l’uso delle automobili, fabbricare merci rinnovabili, sono altrettante pugnalate alle spalle dell’industria dei divani, delle automobili, della chimica.

Che quella circolare sia un’economia sovversiva?
(Articolo di Giorgio Nebbia, pubblicato con questo titolo il 3 giugno 2017 sul sito online “Eddyburg”)

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