Non solo per denaro: la deforestazione del Brasile ha ragioni culturali

 

Rachel Garret, un’economista e geografa dell’università di Boston, è ritornata dopo 20 anni a Sorriso, che era nel paesino agricolo con tre o quattro strade e un pugno di case a 12 ore di autobus dall’aeroporto più vicino, e dopo essere atterrata direttamente nel nuovo aeroporto di Sorriso ha trovato una città con negozi, hotel di lusso e piscine.

«L’avamposto polveroso alla fine del mondo ora somiglia a Tucson – Dice la Garrett – Si estende si estende e si estende».

Sorriso è un caso estremo anche per il Brasile, ma negli ultimi decenni nel più grande Paese del Sudamerica coltivazioni, ranch e città hanno occupato e cancellato zone umide, savane e foreste pluviali, facendo diventare il Brasile l’ottava economia del mondo ma anche cancellando dal 1990 a oggi circa 250.000 Km2 di foresta pluviale, un’area più grande del Regno Unito e poco più piccola dell’Italia.

Le due principali cause della distruzione delle foreste brasiliane sono la coltivazione di soia e l’allevamento del bestiame. 

 

All’università di Boston spiegano che «nel 2004, di fronte alle pressioni delle organizzazioni internazionali e delle proteste interne, il Paese ha iniziato a frenare la deforestazione. 

Il tasso di distruzione delle foreste è rallentato fino al 2008, poi è salito fino al 2016.

Tra agosto 2016 e luglio 2017, sono state distrutte circa 2.500 miglia quadrate di foresta pluviale».

La Garrett, che è anche direttrice della Land Use and Livelihoods Initiative, ha passato gli ultimi 10 anni a visitare posti come Sorriso per cercare di capire come mai agricoltori e allevatori snobbano gli incentivi governativi per fare un uso migliore della terra e perché le leggi più severe non hanno impedito loro di abbattere la foresta pluviale.

Ma soprattutto perché i piccoli allevatori continuano a pascolare il bestiame, quando potrebbero guadagnare di più facendo qualcos’altro.

L’obiettivo finale della sua ricerca – sulla quale ha fatto recentemente il punto nello studio “Explaining the persistence of low income and environmentally degrading land uses in the Brazilian Amazon” pubblicato su Ecology and Society insieme a un team internazionale di ricercatori –  è quello di aiutare i piccoli agricoltori e allevatori di prosperare, frenando al tempo stesso la deforestazione.

L’allevamento di bestiame è una grossa minaccia per la foresta amazzonica che viene abbattuta per creare pascoli, che ogni anno che passa diventano meno produttivi, fino a quando vengono abbandonati e si passa ad abbattere altra foresta pluviale per creare nuovi pascoli.

Ma mentre i grandi fazendeiros, che siedono in Parlamento a Brasilia o fanno eleggere loro uomini a governatori degli Stati, diventano sempre più ricchi, la maggior parte dei piccoli e medi allevatori non se la passano bene. 

La Garrett fa notare  che «nello Stato brasiliano del Pará, allevando bestiame guadagnano solo circa 250 dollari per ettaro. 

Per un piccolo allevatore con meno di 10 ettari, questo si traduce in meno di 2.500 dollari all’anno. 

E questo basta a malapena a ripagare il debito che spesso contraggono quando acquistano il bestiame e la terra.

Il che li rende vulnerabili alle spese impreviste».

Un altro degli autori dello studio, Toby Gardner dello Stockholm environment institute,  fa notare che  «quando si prende una decisione che ha un impatto ambientale, ci si aspetta di ottenere una sorta di ricompensa economica in cambio.

La duplice tragedia della maggior parte della deforestazione nei tropici è che si hanno enormi danni ambientali e ingenti danni sociali per la popolazione locale che vive in questi ambienti, spesso con un beneficio molto piccolo a lungo termine».

I contadini brasiliani potevano guadagnare più soldi e salvaguardare la terra da un ulteriore degrado coltivando  arance o açaí, che rendono 3.300 dollari per ettaro, 13 volte più dell’allevamento, e il precedente governo brasiliano aveva offerto ai piccoli  allevatori incentivi economici perché passassero all’orticoltura, ma spesso non li hanno chiesti. 

Per scoprire il perché di questo comportamento autolesionistico, la Garrett, ha adottato un approccio un po’ strano per una economista: invece di analizzare i dati e fare ipotesi, ha passato un decennio a intervistare centinaia di agricoltori e allevatori nel nord e nord-est del Brasile, cercando di capire le loro motivazioni.

Kimberly Carlson, una ricercatrice dell’università delle Hawaii – Mānoa, che non ha partecipato allo studio ma che collabora spesso con la Garret, dice che «è un approccio davvero interessante: la maggior parte degli economisti siedono nei loro uffici e fanno esperimenti controllati con dataset già disponibili.

Fare ricerca è molto più complicato quando esci sul campo».

Dalle ricerche della Garrett e del suo team sono emersi due importanti motivi per cui gli allevatori restano fedeli al bestiame non redditizio.

Il primo sono le infrastrutture: nonostante l’Amazzonia sia stata riempita di piste, gli allevatori non hanno accesso a buone strade e a camion frigo che rendono praticabile un allevamento redditizio. 

L’altra ragione è meno concreta ma forse più importante: quando la Garrett ha intervistato gli allevatori e gli agricoltori usavano molto spesso il termine “segurança”, “sicurezza”, che in brasiliano vuol dire qualcosa di più: una vita tranquilla, sicura e soddisfacente. I piccoli fazendeiros si preoccupano certamente dei soldi, ma si preoccupano ancora di più delle tradizioni familiari, delle relazioni locali e di un modo di vivere familiare. 

Inoltre possedere bestiame è ancora una questione di status sociale e c’è il “divertimento” e l’orgoglio di essere un cowboy: ci sono rodei e fiere del bestiame e cantanti country, una cultura che le famiglie non vogliono abbandonare e tantomeno cambiare.

«Molti allevatori di bovini desiderano rimanere allevatori di bestiame perché è quel che hanno sempre fatto  – spiega ancora Gardner – Sono orgogliosi di essere allevatori di bestiame. 

Quindi non si trasformeranno improvvisamente in coltivatori pepe nero, che è incredibilmente redditizio, perché qualcuno glielo ha suggerito. 

Cercare di evidenziare alcuni di questi fattori non monetari è stato un contributo davvero prezioso del lavoro di Rachael».

La Garrett fa notare che «questa scoperta non dovrebbe essere assolutamente una sorpresa. 

Dopotutto, quando scelgono una carriera, molte persone danno priorità alla famiglia, alla posizione e alla “segurança” in termini di reddito. 

Ma i programmi per ridurre la deforestazione in Amazzonia generalmente ignorano le aspirazioni e gli obiettivi di stile di vita degli agricoltori e si concentrano invece sugli incentivi economici».

La Garrett vuole cambiare questo approccio insieme all’Empresa brasileira de pesquisa agropecuária (Embresa), una partnership che ha spinto l’agenzia statale brasiliana a tener conto delle prospettive degli allevatori e degli agricoltori che propongono nuovi sistemi. 

«Pensiamo agli agricoltori come a imprese – ha detto l’economista statunitense – Ma gli agricoltori sono anche consumatori, sono famiglie, sono come noi».

I ricercatori sono convinti che la situazione attuale del Brasile rispecchi quella della conquista del West negli Usa:  nel 1862, il presidente Lincoln firmò l’Homestead Act, offrendo ai coloni 160 acri di terra federale (che in realtà era territorio indiano) se ci avessero vissuto per 5 anni “migliorandolo”. 

Nei successivi 70 anni il governo Usa ha concesso ai coloni più di 270 milioni di acri di terra, e oltre 1,6 milioni di persone migrarono verso ovest per occuparli. 

L’Homestead Act e altre leggi successive cancellarono la prateria, la frontiera americana e relegarono i pellerossa superstiti nelle riserve e nelle terre meno fertili. 

La Garrett riassume: «Avevamo lo stesso tipo di programmi che ha il Brasile attualmente per incentivare la gente a “bonificare”  la terra e sviluppare l’agricoltura. 

Questa è stata la base di molte delle politiche di privatizzazione della terra in America Latina». Secondo l’economista statunitense, la frase brasiliana, «integrar para não entregar» equivale al concetto americano del Manifest Destiny, ed è la motivazione ha spinto molti dei coloni dell’Amazzonia: «Questa era una missione molto importante, ben presente in questi contadini, per contribuire a rendere sicuro il Paese abbattendo la foresta. 

Ed è per questo che ho così tanta simpatia per loro. 

Fino agli ultimi 10 o 15 anni, gli era sempre stato insegnato che questa era la cosa giusta da fare. Non puoi andare a parlare con delle persone che pensi stiano facendo qualcosa di male e non uscirne a capire il loro modo di pensare».

Le politiche insediative hanno avuto risultati contrastanti, sia negli Usa che in Brasile e la Garrett evidenzia che alcune delle le aree della monocoltura di soia in Brasile sono anche quelle dove ci sono i più alti indicatori di sviluppo umano, come il livello di istruzione, l’aspettativa di vita, e di reddito più alto. 

«Inoltre –  dice la Garrett – i Paesi in via di sviluppo possono utilizzare l’agricoltura come trampolino di lancio per la produzione, il che può portare a un tenore di vita più elevato. 

Molte persone credono che avere un’industria agricola molto produttiva sia la spina dorsale dello sviluppo.

Quindi può essere buono».

Ma la Garrett ammette che gli ambientalisti che non sono d’accordo con questo modello di sviluppo non hanno tutti i torti: «Non penso che il modo in cui siamo andati avanti con l’agricoltura negli Stati Uniti sia sempre stato intelligente. 

Stiamo cercando di massimizzare la capacità produttiva del sistema e non ci stiamo necessariamente preoccupando della sostenibilità a lungo termine.

Stiamo erodendo il suolo; stiamo mettendo molti fertilizzanti, molti pesticidi; abbiamo monocolture. 

Il tutto è un tapis roulant tecnologico che crea continuamente problemi che stiamo cercando di risolvere.

Lungo la strada, abbiamo anche perso molta biodiversità e abbiamo creato molti problemi ecologici: zone morte nel Golfo del Messico, impatti sulla salute nelle comunità rurali, emissioni di gas serra.

Dal punto di vista della sostenibilità, non direi che quello che abbiamo fatto è fantastico».

Gli economisti parlano di una cosa chiamata curva Kuznets ambientale: la relazione tra crescita economica e degrado ambientale. 

Mentre un Paese moderno si sviluppa i suoi abitanti esauriscono rapidamente le risorse naturali. 

Quindi, quando il reddito medio raggiunge un certo livello, i cittadini iniziano a voler proteggere la loro acqua, l’aria, le montagne e le foreste. 

Carlson aggiunge: «Teoricamente, dato che ne  sappiamo di più, possiamo abbreviare la componente del rapido esaurimento delle risorse e passare direttamente a una buona governance ambientale.

Penso che sia un obiettivo al quale tutti cercano di arrivare.

E per il Brasile c’è ancora tempo».

La Garrett crede che la soluzione per il Brasile possa essere, almeno in parte, quella dell’integrated crop, livestock, and forestry, cioè coltivazioni, forestazione allevamento a rotazione o all’unisono, in un modo che diminuisca il bisogno di fertilizzanti e pesticidi e aumentino i profitti. 

«Questa è una potenziale soluzione per questi allevatori – dice ancora la Garrett – Non abbiamo intenzione di sbarazzarci degli allevamenti. 

Essere un cowboy è così rispettabile. 

Avere bestiame ti dà uno status sociale. 

Anche mangiare carne bovina è associato allo status. 

E davvero socialmente integrato. 

Quindi, come possiamo rendere l’allevamento migliore?».

La Garrett in Brasile ha visto alcune sorprendenti storie di successo e buone pratiche, come quella di un allevatore di bovini da carne che è passato alle mucche da latte più redditizie, ha piantato eucalipti per fare ombra agli animali e ha fatto raccolti a rotazione per rinnovare il terreno. 

«Lì fa molto caldo e il bestiame pascola all’ombra.

Ciò dà maggiore comfort al bestiame, fa produrre più latte – aggiunge la Garrett – Alcuni prodotti lattiero-caseari, come il latte in polvere, non richiedono la stessa attenta manipolazione e refrigerazione di frutta e verdura per il trasporto a lunga distanza.

I bovini mangiano i residui colturali e il letame serve da concime per le colture e gli alberi. 

L’allevatore alla fine taglia gli alberi e vende la legna per farne combustibile.» 

È facile vedere i benefici: l’allevatore continua a far pascolare e fa più soldi e il suolo viene migliorato.

Sistemi come questo potrebbero diventare più diffusi in Brasile: «In realtà se funziona bene in un piccolo sottogruppo leader della popolazione, poi si diffonde ad altre persone». Secondo l’Embresa, nel 2010 gli agricoltori brasiliani  utilizzavano sistemi integrati su circa 5.800 miglia quadrate di terreni, nel 2016 erano 7 volte di più. 

«Lo status conta. Qualcuno deve dimostrare che funziona».

Un tema caldo in Brasile è la politica “deforestazione zero”, sottoscritta da centinaia di multinazionali come  Cargill e Krispy Kreme che si sono impegnate a non acquistare prodotti, come la soia o l’olio di palma, che sono stati coltivati ​​su terreni deforestati. 

La Garrett sta lavorando con la Carlson, che studia la produzione di olio di palma nel Sud-Est asiatico, per misurare l’effetto di queste politiche e se sono davvero globalmente positive. 

La risposta a questa domanda, ancora una volta, non è semplice: «Dicono che riducono la deforestazione, ma forse riducono anche la quantità di soia prodotta in Sud America. 

Ciò potrebbe potenzialmente far salire i prezzi nei mercati globali e quindi rendere più probabile che qualcuno da qualche altra parte stia disboscando per produrre soia  – afferma Carlson –  È un problema chiamato “leakage” ed è un grosso problema». 

Gli scienziati sperano che se molte aziende si impegneranno in molte regioni e su più commodities, allora gli impegni per la deforestazione zero avranno un effetto. 

Altrimenti, forse no.

La Garrett conferma. «Ci sono molte lacune.

Sicuramente ci sono ancora problemi con gli agricoltori che stanno deforestando da qualche altra parte, o stanno vendendo il loro prodotto a qualcun altro, o la deforestazione si sta spostando verso il Cerrado, che è la savana tropicale, o si sta spostando verso la foresta del Chaco, che è in Argentina, Paraguay e Bolivia».

Ma la Garrett non cerca soluzioni semplici: ha un background interdisciplinare in economia, ecologia e geografia, guarda ai problemi da molteplici angolazioni e soprattutto è curiosa nei confronti delle persone, quindi arriva a conclusioni che tengono conto di molte sfumature e ama la complessità. 

E forse, per un problema come la deforestazione, nel quale si intrecciano politica, cultura ed ecologia, il suo approccio ha le migliori possibilità di successo.

L’economista statunitense conclude: «La maggior parte delle persone inizia con un’ipotesi molto chiara, in bianco e nero, e si suppone che un esperimento risponda a quell’ipotesi. 

Ma cosa succede quando le risposte non sono in bianco e nero? 

Non lo sono mai.

Sì, è disordinato.

Ma il disordine mi piace».

 

(Articolo pubblicato con questo titolo il 12 febbraio 2018 sul sito online “greenreport.it”)

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