Sovrappopolazione, cibo, ambiente e clima, perché non si può essere ottimisti

 

«Praticamente tutte le tendenze, biofisiche e socioeconomiche, suggeriscono che i livelli di fame, già elevati, con l’aumento della popolazione umana e il degrado dei suoi sistemi di supporto vitale potranno solo aumentare. 

Purtroppo, i passaggi che potrebbero migliorare la situazione non si vedono da nessuna parte».

È l’incipit pessimistico ma realistico con il quale Paul R. Ehrlich, presidente del Center for Conservation Biology e bing professor of population studies al Dipartimento di biologia della Stanford University; e John Harte, professore al Dipartimento di scienze ambientali, politica e management dell’università della  California – Berkeley, iniziano l’analisi “ Pessimism on the food front” inizialmente pubblicata su Sustainability e poi ripresa da numerosi giornali come The Daily Climate.

I due noti scienziati partono da una domanda alla quale forniscono già una prima risposta:  è probabile che l’umanità soddisferà in modo soddisfacente i bisogni alimentari di 11 miliardi di persone verso la fine di questo secolo? 

«Ovviamente non dopo 60 anni di assicurazioni sul fatto che il problema alimentare sarebbe stato risolto: oggi non ne non stiamo alimentando 7,5 miliardi».

Le cifre impietose ci dicono che, dal 2014, nel mondo il numero di persone denutrite è in aumento e che nel 2016 ha raggiunto circa gli 815 milioni, mentre diversi miliardi di esseri umani soffrono di malnutrizione da micronutrienti.

Secondo Ehrlich e Harte, per dare una risposta più completa a questa domanda cruciale bisogna però prendere seriamente in considerazione le probabilità che nel 2100 il mondo sia (sovra)popolato da 11 miliardi di persone, come previsto dai demografi dell’Onu, e i problemi biofisici e sociopolitici che porrà la necessità di nutrirle.

I due scienziati scrivono: «Salteremo la domanda su quale sarà la futura dimensione della popolazione, se non per notare che le crescenti possibilità di un olocausto nucleare, di una pandemia mortale e/o i conteggi che già sono in calo degli spermatozoi umani possono trasformare un’esplosione probabilmente letale della popolazione in un drammatico crollo della popolazione.

La produzione alimentare mondiale futura affronta diversi vincoli biofisici potenzialmente gravi. 

Uno è la disponibilità di terra arabile. 

La maggior parte della terra migliore è già in produzione, e gran parte di essa è adiacente ai centri urbani (ecco perché le popolazioni umane tendono a concentrarsi lì).

Inoltre, gran parte di quella terra va persa per l’erosione e il degrado del suolo. 

L’aggiunta di più di 3 miliardi di persone alla popolazione globale sembra certo restringere questo limite. 

Una recensione di quasi un decennio fa sulle prospettive di alimentazione per “solo” 9 miliardi di persone nel 2050 evidenziò alcuni degli enormi ostacoli che il mondo avrebbe dovuto superare nella prima metà di questo secolo.

Un secondo grave ostacolo è probabilmente la diminuzione della quantità e della qualità del suolo, compresa l’erosione, l’esaurimento di molti nutrienti non contenuti nei fertilizzanti, ma anche la degradazione della struttura del suolo e la distruzione del microbioma del suolo che può essere fondamentale per la produttività delle colture. 

Il fosforo nutriente chiave potrebbe essere particolarmente problematico, ma tale questione è dibattuta».

La produzione di cibo può essere influenzata anche dall’assalto generalizzato dell’umanità alla biodiversità, in particolare alla sorte degli impollinatori e dei nemici naturali dei parassiti delle colture. 

Ehrlich e Harte  ricordano che «il deterioramento della situazione degli impollinatori si è concentrato principalmente sulla sindrome dello spopolamento degli alveari delle api mellifere, ma è molto più ampio. 

Popolazioni di api selvatiche e altre specie impollinatrici, tra cui farfalle e falene, uccelli e pipistrelli, vengono spinte all’estinzione a ritmi sorprendenti».

Un limite difficile da misurare è la sicurezza delle monoculture sempre più grandi create, la capacità di controllare i parassiti e gli effetti collaterali tossici degli sforzi di tenerli sotto controllo. 

La coltivazione di patate e il suo “pesticide treadmill” ne sono un esempio e «un problema correlato è il probabile grande aumento di avvelenamenti da interazioni microplastiche/tossine nelle catene alimentari marine».

Ma il principale e più probabile limite biofisico principale per la futura produzione agricola è il cambiamento climatico che sta già mostrando impatti misurabili: «Il cambiamento dei regimi delle temperature e dell’ umidità influenza direttamente la capacità produttiva delle colture – dicono  Ehrlich e Harte  – è stato dimostrato che il riscaldamento globale riduce la produzione di grano del 6% per ogni aumento di 1° C. 

Temperature notturne più elevate possono comportare una sostanziale riduzione delle rese del riso.

Il cambiamento climatico molto probabilmente causerà grandi riduzioni delle rese in molti modi. Innanzitutto, per tutte le piante, comprese le colture domestiche, esistono condizioni di temperatura e umidità del suolo che producono i maggiori rendimenti.

Non sorprende che in genere gli agricoltori lo sappiano e coltivino sulla loro terra i raccolti che raggiungono i loro raccolti ottimali con  il clima locale. 

Tuttavia, poiché i cambiamenti climatici “spingono la copertura climatica”, generalmente i rendimenti diminuiranno. 

Studi empirici indicano che anche se possiamo evitare che il riscaldamento superi i 2° C, l’effetto della sola temperatura provocherà almeno il 10% di diminuzione delle rese di alcune importanti colture alimentari».

Ma i due scienziati avvertono che tutto questo è ottimistico, «perché la scarsità d’acqua in un clima più caldo quasi certamente avrà un impatto ancora più grave sull’agricoltura. 

Oltre a ciò, la traiettoria in cui ci troviamo attualmente porterà il pianeta oltre l’obiettivo dei 2 gradi.

In secondo luogo, circa un terzo della produzione agricola mondiale si basa sull’acqua di irrigazione, in gran parte derivante dallo scioglimento della neve. 

Nelle regioni montuose come l’Himalaya, le Montagne Rocciose, la Sierra e le Ande, il manto nevoso invernale è un bacino idrico molto efficiente, che immagazzina l’acqua nei mesi freddi e la rilascia gradualmente come neve sciolta nei mesi caldi quando gli agricoltori ne hanno bisogno.

La disgregazione climatica si traduce in una diminuzione dei nevai invernali e in un rapido deflusso primaverile, privando in tal modo gli agricoltori di questo prezioso bene e, in gran parte del mondo, non ci sono sostituti noti. 

In risposta alla siccità grave e prolungata in molte regioni del mondo, tra cui Cina, India, Tailandia, Italia e California, la perdita di acqua di irrigazione superficiale ha provocato un eccessivo pompaggio delle acque sotterranee, che a sua volta ha portato alla subsidenza del terreno, all’esaurimento delle acque sotterranee e alla perdita irreversibile di  volume della falda acquifera.

In terzo luogo, la disgregazione del clima porta inevitabilmente a eventi climatici catastrofici che si verificano più frequentemente, sono più intensi e durano più a lungo. 

Tali eventi estremi includono siccità, super-tempeste come Sandy, Harvey e Irma, ondate di caldo e vasti incendi.

Tutto  questo è devastante per la produzione agricola e gli effetti sull’agricoltura possono durare ben oltre la durata dell’evento meteorologico stesso».

Il due scienziati fanno l’esempio delle tempeste estreme che spesso causano un’erosione del suolo estrema, mentre emungimento delle acque di falda per sostituire la mancanza di precipitazioni può portare a una perdita permanente di terra arabile dovuta alla salinizzazione del suolo e alla subsidenza e a una perdita permanente della capacità di stoccaggio delle falde acquifere .

Il quarto problema è che «anche la produzione di cibo verrà probabilmente ridotta indirettamente dagli effetti degli sconvolgimenti climatici  sulla biodiversità.

Ad esempio, il riscaldamento tenderà a ridurre la funzione di “controllo dei parassiti” dell’inverno, convertendo sempre più aree verso l’agricoltura “tropicale”.

Il riscaldamento ridurrà inoltre la quantità di tempo in cui gli agricoltori possono effettivamente lavorare i loro campi in aree in cui, ad esempio, non sono disponibili trattori con cabine con aria condizionata. 

E, purtroppo, l’aggiunta di CO2 nell’atmosfera può portare a seri problemi per il  valore nutrizionale delle principali colture».

Quinto, il riscaldamento degli oceani potrebbe avere gravi ripercussioni sulla produttività della pesca, e l’acidificazione degli oceani da biossido di carbonio che l’umanità sta immettendo nell’atmosfera potrebbe avere conseguenze ancora più gravi. 

Ehrlich e Harte ricordano che «gli impatti sulle barriere coralline sono già documentati e persino facilmente visibili ai turisti; questo è quasi certamente dannoso per la pesca locale così importante per la fornitura di proteine per molte persone povere».

Infine, il cambiamento climatico sta già creando sia il problema dei rifugiati climatici che l’aumento dei punti caldi per i conflitti interni e tra Paesi: «Ad esempio, la siccità in Siria e in Sudan ha indubbiamente contribuito all’eruzione di conflitti e allo sfollamento di persone in quelle regioni. Con gli agricoltori scacciati dalla loro terra e con la distruzione delle infrastrutture di approvvigionamento alimentare che inevitabilmente accompagna i conflitti, il problema della fame è notevolmente esacerbato».

Ma anche se il clima globale non fosse sconvolto, nei prossimi anni il mondo avrebbe probabilmente dovuto affrontare una grave crisi della sicurezza alimentare: «Ad esempio – scrivono i due professori della Stanford e di Berkley –  stiamo sovra-sfruttando la terra e il mare. Un primo segnale di questo è la fluttuazione dei prezzi del pesce oceanico, inclusa la recente impennata del prezzo del salmone reale. In alcune regioni, il ciclo maggese – ritaglio, necessario per la sostenibilità del suolo, viene compromesso dalla necessità di alimentare popolazioni in rapida crescita.

Poi, naturalmente, ci sono i problemi dell’intossicazione e delle malattie. 

Mentre la disgregazione climatica aggrava questi problemi, esistono anche con un clima favorevole. 

Quando intossichiamo i nostri raccolti con pesticidi che imitano gli ormoni, ci avveleniamo.

Quando pompiamo smisuratamente antibiotici nei nostri animali domestici, una conseguenza della crescita degli animali in densità più elevate per aumentare l’efficienza dell’allevamento ad alto rendimento, ci rendiamo più vulnerabili ai patogeni di nuova evoluzione. 

Una crescente dipendenza dai pesci e dai crostacei d’allevamento, per sostituire le popolazioni selvatiche in declino, aumenterà solo questo rischio».

Però Ehrlich e Harte sospettano che «il più grande ostacolo alla speranza sul fronte della fame sia sociopolitico. 

Nasce soprattutto da una combinazione di ignoranza, politica e stressa mento dell’ordine mondiale da sovrappopolazione umana. 

Sebbene la crescita e la raccolta del cibo siano l’attività più importante dell’umanità, il potenziale problema alimentare globale è oggetto di scarsa attenzione da parte dei media o dei sistemi educativi.

In effetti, pochi laureati americani sanno da dove provengono i loro alimenti al di là del supermercato. 

Argomenti quali il ruolo dell’energia, del commercio, delle strade, delle infrastrutture per la gestione delle acque e della biodiversità nel fornire  nutrimento all’umanità appaiono raramente nelle scuole o nei discorsi pubblici.

Questo è drammaticamente dimostrato dall’attenzione inadeguata che viene prestata alle catastrofi climatiche. 

Questa è probabilmente la minaccia più grave alle future forniture alimentari, eppure nella copertura climatica viene prestata maggiore attenzione all’aumento del livello del mare, alle ondate di cado e ai disastri costieri provocati da uragani e super-tempeste.

In effetti, raramente i media uniscono anche i punti che collegano la “weather disruption”, alla quale viene dato grande risalto nelle newse, alla distruzione climatica. 

È stato irresponsabile che i media mainstream abbiano parlato della tempesta in Texas, Harvey, mentre essenzialmente non hanno mai menzionato la sua connessione con i cambiamenti climatici, per non parlare della forte connessione della crescita della popolazione con  il riscaldamento globale e la distruzione ambientale in generale.

In un clima caldo, le temperature oceaniche più elevate possono alimentare eventi di tempeste più intense e l’atmosfera più calda ha la capacità di immagazzinare più acqua, quindi i temporali sono più intensi. 

L’uragano Irma, che fece immediatamente seguito ad Harvey, portò almeno ad alcune discussioni sulle connessioni con il disastro climatico (ma quasi su nessuna delle connessioni tra combustibili fossili e popolazione).

Dal punto di vista negativo, entrambi gli eventi hanno aggiunto enfasi sull’aumento del livello del mare tra coloro che capiscono che l’umanità sta cambiando il clima, trascurando le sfide molto più gravi dei disastri climatici per l’agricoltura. 

I molteplici danni che il riscaldamento globale sta causando, in particolare all’accesso umano a rifornimenti alimentari adeguati, potranno solo aumentare se se i negazionisti della scienza continueranno a fornire ai politici scuse per non fare nulla riguardo al problema, mentre i media restano quasi in silenzio».

E qui i due scienziati criticano duramente le politiche anti-ambientaliste dell’Amministrazione di Donald Trump: «Non aiuta che la nazione più potente del mondo, un centro di produzione e ricerca agricola, sia ora governata da una kakistocrazia. 

L’attuale amministrazione repubblicana agisce in modo contrario alle esigenze della società in aree critiche come l’agricoltura, l’energia, l’ambiente e la politica in materia di acque. Altri governi nazionali spesso non sono molto migliori. 

L’importanza dei cambiamenti climatici, della biodiversità, delle infrastrutture per il trattamento delle acque, del microbioma del suolo e così via è poco apprezzata dai decision makers nella maggior parte delle nazioni».

Eppure, nonostante questo fosco quadro tracciato, i due scienziati dicono  che c’è ancora qualcosa che li  renderebbe più ottimisti sul fatto che la fame in massa possa essere evitata: «Innanzi tutto, metteremmo i problemi dei cambiamenti climatici e le molte dimensioni della situazione della sicurezza alimentare, in particolare l’iniquità della distribuzione di cibo e degli sprechi alimentari, in cima all’agenda politica di tutto il mondo.

Altrettanto importanti sarebbero gli sforzi globali per ridisegnare le pratiche di gestione del suolo e dell’acqua per aiutare l’agricoltura ad affrontare i cambiamenti climatici già in corso, i passi per ridurre il consumo di carne, l’istruzione pubblica su questi e altri problemi legati al cibo, comprese le tossine che mimano gli ormoni.

Soprattutto, un segnale più promettente sarebbe che più nazioni che offrissero un maggiore accesso alla contraccezione moderna e all’aborto e a diritti veramente uguali per le donne.

Questi passi potrebbero spingere il mondo verso la riduzione della popolazione, la conditio sine qua non della sostenibilità, e senza la quale nessuno degli altri obiettivi ambientali sarà probabilmente raggiunto».

 

 

(Articolo pubblicato con questo titolo il 27 aprile 2019 sul sito online “greenreport.it”)

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