Roma, il Tar annulla la vendita: Palazzo Nardini è salvo

 

La prima storica sentenza è arrivata.

La vendita di palazzo Nardini al fondo di investimento immobiliare Invimit da parte della Regione è nulla.

Il gigante di via del Governo Vecchio, a lungo sede della Casa delle Donne, è salvo.

Così hanno deciso i giudici del Tar del Lazio, al termine di una lunga analisi dei vincoli apposti dalla Soprintendenza sull’immobile.

Tutele che, in attesa del più che probabile appello della Pisana e di Invimit al Consiglio di Stato, sono più che legittime secondo i magistrati amministrativi.

Prima di tutto, quindi, la questione della proprietà.

Lo stabile acquistato dalla Regione nel 2003 per 37,5 milioni dalla Comunione delle Asl e poi affidato al fondo a capitale interamente pubblico per la sua valorizzazione — tra le idee circolate, anche la sua trasformazione in un resort di lusso — tornerà alla Pisana.

Poi c’è la vicenda che interessa i vincoli apposti dal Mibac sulla struttura.

Sia quelli a tutela della sua unicità artistica che quello che ne riconosce l’importanza nella storia nazionale.

«Risalta in modo chiaro – si legge nella sentenza – la rilevanza del bene sotto il profilo non solo culturale ed artistico, ma anche di collegamento identitario, per la funzione che lo stesso ha assolto di sede di rilevanti Istituzioni, prima dello Stato pontificio, poi dello Stato italiano, e la cui storia è dunque profondamente connessa con il contesto ( pur mutevole nei secoli) politico- istituzionale romano».

Il vincolo è venuto meno soltanto su alcune delle botteghe e degli appartamenti che si affacciano su via del Governo Vecchio.

Mentre il nucleo storico del palazzo dell’arcivescovo Stefano Nardini, opera del Quattrocento più e più volte rivista e rimaneggiata, è intatto: dal portale centrale fino al resto delle mura che si allungano verso via della Fossa e via del Corallo, è arrivata la sanatoria del Tar.

Gli stessi giudici si sono pronunciati anche sul museo del Risorgimento: via le mostre.

I lavori per smantellare la mostra di Pollock e degli altri maestri della scuola di New York, terminata lo scorso 5 maggio, sono quasi finiti.

Un’altra settimana e poi l’ala Brasini tornerà nella piena disponibilità dell’istituto.

Così ha deciso il Tar del Lazio, con un’ordinanza che obbliga l’Arthemisia Museum, società titolare di una concessione scaduta lo scorso 31 dicembre, a fare armi e bagagli dopo oltre 20 anni di attività.
Alla fine i magistrati amministrativi hanno dato ragione a Francesco Paolo Tronca, ex commissario prefettizio del Campidoglio e ora tutore straordinario dell’istituto che si trova proprio sotto palazzo Senatorio.

In attesa della relazione in cui andrà chiarito cosa ne sarà degli spazi espositivi, il museo e Arthemisia dovranno trovare un accordo economico sulle migliorie realizzate dai privati negli anni: condizionatori e allarmi comprati dai privati rimarranno al loro posto, pronti per accogliere i prossimi affidatari dell’ala Brasini.

Sempre che riparta il bando pubblicato a dicembre e poi congelato.

Difficile, almeno per ora, stabilire un timing per la riapertura.

Quel che è certo, invece, è che la decisione dei giudici trae ispirazione anche dall’inchiesta aperta dalla corte dei Conti sugli stessi locali.

La procura di viale Mazzini ha infatti bussato alla porta di Romano Ugolini, ex presidente dell’Istituto che secondo i pm contabili dovrebbe restituire 1,3 milioni di euro alle casse del museo.

II pm contabili contestano lavori fantasma, altri interventi abusivi e una gestione delle royalties troppo poco remunerativa.

Inchieste a parte, Arthemisia sta per completare il trasloco: «Apriremo una nuova sede — spiega la curatrice Iole Siena — che presto sveleremo.

L’ala Brasini?

Mi auguro che ora lì si faccia qualcosa.

Quando l’abbiamo presa noi era ridotta a un magazzino polveroso».

(Articolo di Lorenzo D’Albergo, pubblicato con questo titolo il 7 giugno 2019 sul sito online del quotidiano “la Repubblica”)

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